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Allucinazioni di un clochard
Tutto ebbe inizio in una mattinata di sole autunnale. Ormai abituati alle sensazioni epidermicamente sgradevoli che la presenza continua del sole provoca in estate, la vista di quella luce tiepida, discreta, appena appena sufficiente a mantenere gialle le foglie dei platani di Viale Trastevere, poteva anche indurre a uno stato di monotona allegria.

Per questo io, le mie zecche e le mie numerosissime pulci, eravamo distesi sulla panchina di pietra vicino alla fontana di Piazza Mastai, dove da oltre un mese meditavamo di ripulire il grosso.

Intorno le auto infettavano l'aria, la scuola elementare lì accanto aveva inutilmente riaperto e la gente... beh la gente riusciva sempre ad incantarci.

In determinati momenti sembrava proprio che i romani tentassero di comporre, inconsapevolmente, una difficile trama sinfonica attraverso l'infinita serie di rumori della loro vita diurna.

Noi avevamo appena socchiuso gli occhi e potevamo sentire il ritmo sincopato di due mani che si stringono e si lasciano e l'assolo jazzistico di un dito che gratta l'orecchio. I rumori del corpo umano sono tra i più commoventi in natura, ma il nostro udito arriva a percepirne solo una debole eco: essi sono immersi con le loro tonalità basse e fruscianti sotto la soglia dell'attenzione acustica. Ma che meraviglioso strumento è l'apparato fonoarticolatorio del nostro corpo, e quanto è misconosciuto!

Tempo addietro, in uno dei rari momenti di noia creativa, componemmo, a mente, 24 studi per solo corpo. Ventiquattro, proprio come Chopin.

Mi rammarico spesso per la mancanza di promozione del corpus, specie dello studio n.3. Nostra deplorevole incapacità rea di ritardare, in questa parte del mondo, la conoscenza delle sonorità della propria entità corporea e sue diverse strumentazioni; proposte musicali innovative che, invece, grazie ad una affermazione concertistica, di certo arricchirebbero il patrimonio musicologico del pianeta (senza pensare all'eventuale, meritato, «rientro» economico: CD, radio, videoclip, passaggi televisivi ecc.).

Pensieri... Ma quella maledetta colonia di rafani in silenziosa e ritualistica processione sulla coscia sinistra ci infastidì un poco. distogliendoci dai pensieri, proprio quando si era deciso di risentire mentalmente lo studio n. 3. Segno che era ora di deambulare per muovere le gambe.

Una tappa d’obbligo che la mattina ci imponevamo non senza prima aver risolto il quotidiano conflitto tra la curiosità di sapere e la possibilità di immaginare - facoltà che avevo elegantemente affinato nei lunghi anni di convivenza con i miei inquilini -, questa tappa. dicevo, era l'accurata ispezione del bazar dei giornalaio.

Commerciante spregevole, attaccato oscenamente a monete e monetini: in mezzo a quella roba da fanciulli, ordinava con frenesia pile di riviste, piegava i giornali in modo da occultare due terzi di titolo ed occhiello, fingeva un'attività manuale da artigiano di cui forse rimpiangeva la privazione.

Ci ricordiamo esattamente che quella mattina eravamo leggeri: avevamo lasciato i lavori miei e le tele dei miei reagenti chiusi nel sacco di plastica, modello A.M.N.U., di color antracite, sotto la panchina di travertino romano. Quando noi ci svegliamo, infatti, quella benemerita categoria di dipendenti comunali ha già provveduto a completare il ciclo economico - oggetto finito, oggetto sfinito - di metastatizzazione del prodotto e relativa trasformazione in immondizia.

Si deve avere 1'accortezza, alla quale noi da molto tempo ci siamo educati, di porre le cose cui più teniamo in un sacco di spazzatura, cosicché quest'ultimo possa essere tranquillamente abbandonato dovunque, tra un turno di lavoro e l'altro degli operatori ecologici, con nonchalance.

Una volta però, quando s'era tutti più giovani - incluso lo scarabeo pigro, da anni in subaffitto nelle pieghe dei miei pantaloni di fustagno di Prato,

che sfrutta così l'altrui forza motoria - dormimmo per tre giorni. Sopraggiunse un solerte pulitore di strade e portò via il sacco accanto a noi con dentro: una trilogia eroicomica, una notevole collezione di foglie secche di platani, almeno dodici ragnatele robuste tessute da alcuni ragni piccoli e fortissimi - successivamente tutti deceduti per l’immenso dolore - 14 o 16 madrigali, la cordapazza di 5ciascia, i Principi di diritto precessuale civile di Chiovenda (ristampa anastatica della III edizione) ed altri pezzi. Tutti oggetti di valore, che avrebbero meritato l'onore di comparire negli immacolati fogli di un verbale di denuncia, per furto o smarrimento, del Commissariato di Monteverde.

Sgombri e riposati com'eravamo quella poteva essere la mattina adatta per render visita ad una colonia di formiche che, vicino al monumento di Giuseppe Gioacchino Belli. aveva cominciato a porre in essere interessanti progetti in tema di organizzazione sociale e di edilizia intensíva. Prima, solo una breve sosta per sbirciare le notizie...

La « disoccapazione» in Germania

Berlino. E’ un lavoratore del popolo dei disoccupati della nuova Germania, si chiama Hans Werner Wiesel e vive a Leverkusen, cittadina famosa per essere la culla della Bayer, i cui muri di cinta attorno a immensi impianti, sono di mattoni rosso sangue, anneriti dal fumo e variegati di incrostazioni d'imprecisata, e sicuramente mefitica, natura chimica. Il signor Weisel però non è un chimico ma un operaio metalmeccanico alla più alta qualificazione della sua categoria. Ha 55 anni, un'aria assai gentile e compita, veste sportivo senza eccessi ed ha una moglie bionda, molto carina, Freida che ci accoglie in pantaloni, perfetti e attillati sui fianchi sottili, e golf a collo alto, bene intonato. Hans lavorava in una fabbrica di accessori per automobili ed ha perso il posto nel giugno scorso, quando la ditta ha licenziato circa la metà dei suoi 400 dipendenti. Grazie alla sua qualifica raggiungeva i tremila euro lordi al mese; comunque economicamente la disoccupazione non lo colpisce più di tanto. Infatti egli riceve un sussidio di disoccupazione che copre il 68% dell’ultimo salario. Nel contempo Hans sta seguendo un corso di riqualificazione organizzato dall'Ufficio Federale dei lavoro, e riceve così un'intearazione pari ad un ulteriore 22%. Un brutto momento

Una condizione niente affatto drammatica, come si vede. Tanto più che Freida lavora anch'essa come segretaria – a Dússeldorf, dove si reca ogni mattina e da dove rientra ogni sera - con uno stipendio di duemila curo al mese. Non hanno figli, vivono in un appartamento moderno e ben studiato: due stanze soggiorno, bagno e cucina, ammobiliato addirittura con lusso; un lusso, forse, leggermente ostensivo. Ma questo non c'entra. Quello che conta è che l'appartamento è di loro proprietà, anche se continueranno a pagare per 15 anni un mutuo fiduciosamente contratto.

«Passai un brutto momento - ci dice Hans Werner Weisel - quando l'ufficio personale dell'Azienda mi comunicò che ero in soprannumero. Tanto più che avevo conseguito da poco la massima qualificazione e mi erano state affidate mansioni di grande responsabilità. Però non mi sono scoraggiato, sono ottimista, ho pensato che avrei trovato ben presto un lavoro nuovo, magari migliore. Ho già avuto un paio di telefonate dall'ufficio di collocamento, ma nessuna delle offerte faceva per me. Del resto quando avrò terminato il mio corso, e avrò passato l'esame per l'abilitazione al controllo delle linee, un buon posto salterà fuori. Lascerò la tuta per il camice bianco». Gli chiedo come passi il suo tempo e mi risponde che, nelle ore libere dal corso, studia e si preoccupa delle faccende di casa in modo che Frieda sia un tantino più sollevata. (“E’ una meraviglia - sorride la moglie guardandolo di sottecchi - io arrivo a casa, alle sei di sera!»). Inoltre gioca a tennis e sogna sempre di mettere in acqua la piccola barca a vela parcheggiata in questi giorni di inverno ritardato nella rimessa ma che, appena il tempo lo consentirà, verrà agganciata, col suo carrello, alla Renault SX-9, immatricolata l’anno scorso.

L’ufficio del lavoro trasferisce automaticamente il sussidio di disoccupazione sul conto bancario di Hans; un conto di cui, non volendo superare i limiti della discrezione, non chiedo I’ammontare, ma che è ancora lontano dal segnare rosso. «Abbiamo risparmiato assai in passato - spiega, quasi scusandosi, Frieda - e siamo quindi abbastanza tranquilli e comodi. L'anno passato, appena Hans fu licenziato, passammo le vacanze in Svizzera. Un po' cara, ma deliziosamente poetica e bella. E penso proprio che ci torneremo anche l'estate prossima...».

«Non è detto - la interrompe il marito -, da un paio di settimane, sui giornali della domenica, sono cominciate a riapparire offerte di posti per personale con la mia specializzazione. Pur tornando al lavoro ora non avrò maturato molti giorni di ferie per quest'estate». Un attimo di riflessione mentre il viso si fa teso. E poi: «Speriamo solo che non si blocchi tutto».

«Nella mia vecchia fabbrica - continua Hans - producevamo vari pezzi da motore per auto. Il ritmo era di sette minuti al pezzo. Lavoravamo, come si diceva. ‘a modulo sette’. La richiesta d'automobili è diminuita e adesso continuiamo a produrre allo stesso ritmo, ma su un numero inferiore di squadre e di macchine. Con le nuove linee automatizzate, che sto imparando a controllare, si può sfornare un pezzo ogni due minuti, sino a scendere a 180 secondi a pezzo. Questo significa che se tutto va bene continueremo a produrre sempre più in fretta e sempre di più. Ma non arriverà un momento in cui non sapremo più che farcene?».



«Ci stanno arrivando anche i tedeschi». Esclamammo sfidando lo stupore infastidito dei giornalaio.

«Dove?» Era la prima volta che ci rivolgeva la parola.

« A capire che la sopravvivenza sarà solo di quelle imprese capaci di instaurare effettivi rapporti di reciprocità con clienti/utenti che concedono tempo, denaro e attenzione in cambio anche di servizi gratuiti e rapporti umani».

Il giornalaio scrollò le spalle e riprese a fingere di aggiustare i bordi dei quotidiani e le coste dei settimanali.

Ma noi non ci scoraggiammo e lo incalzammo: «Internet, per i suoi figli, è già il luogo delle chiacchiere dove tutti vanno per socializzare, oltre che per comprare e vendere e da questa nuova realtà nasce la necessità di sviluppare rapporti più aperti, volatili e democratici tra impresa e società. Volatilità e democrazia - spiegammo - significano che desideri, pratiche e valori sociali, in pace e in guerra, conquistano una loro completa autonomia destinata, finalmente, a condizionare l'economia globalizzata, un grande rovesciamento che potrebbe, perfino, sovvertire i meccanismi di funzionamento...»

«lo ho una figlia unica con il diploma magistrale - m'interruppe il giornalaio - e chiacchiera solo con le amiche».

Stavolta ci scoraggiammo e riprendemmo la lettura del giornale.

Stupore e insofferenza

Pur dotato di una buona cultura - più tecnica che di filosofia economica - Hans non ha mai sentito parlare di modelli di sviluppo e non ha mai pensato di contrapporre crescita indifferenziata a crescita organica. Epperò è storicamente informato se cita «il caso degli scioperi a Neckarsulm, trenta anni fa, quando, dopo un prospero periodo, vi furono problemi di superproduzione e licenziamenti».

Infatti a Neclcarsulm, tra fine anni Sessanta e inizio dei Settanta, prosperava una grande fabbrica-modello della Audi-NSU. Uno stabilimento che al contempo si faceva notare per l’irrequietezza e per reazioni spesso assai nervose delle maestranze.

La turbolenza degli operai di Neckarsulm attirò, all'epoca, l'attenzione dei ricercatori della Facoltà di Sociologia all'Università di Francoforte, che cercarono di scoprire cosa vi fosse nella testa collettiva delle maestranze indisciplinate della Audi-NSU, limitando, si noti bene, l'inchiesta agli operai di nazionalità tedesca. Il prof. Walther Häase, che diresse tutto il Iavoro, spiegò che nel 75% per cento delle interviste, condotte a tre diverse riprese su un campione di 550 dipendenti, era stato messo in discussione, il tipo di vita che l'intervistato conduceva in stretto collegamento con l'orientamento produttivo della fabbrica in cui lavorava; non con il lavoro del singolo o con il tipo di organizzazione del lavoro in cui il singolo era integrato, ma proprio con le scelte produttive e le ricadute sociali della nostra Leistungsgesellschaft, «la società dei guadagno»!

Implicazioni politiche

Sulla scorta delle preoccupazioni di Hans Wener Wiesel e dei rilevannenti d'epoca del prof. Häase diventa dunque lecito domandarsi se per caso in una macchina economica e sociale di tipo nettamente occidentale, molto avanzata quanto a strutture, molto ordinata e ragionevole quanto a clima in assenza di ogni schermo o illusione rivoluzionaria, non stia emergendo, mescolata ben inteso a tutto il resto, congiuntura in prima fila, anche una qualche coscienza della crisi di trapasso. Crisi che tanti economisti e sociologi, con motivi che sembrano degni almeno di considerazione, prefigurano prossima nel nostro sistema produttivo, crisi che vive di ritorni ciclici nella società post-industrîale.



Riflettevamo, su quanto letto, quando una voce femminile ci forò i timpani «'n chilo de rollè de vitello pe' ppiacere».

Ci voltammo lentamente per gustare meglio la scena che si profilava insolita. Piantata in mezzo all'edicola, tra una pila di riviste punteggiate da capezzoli femminili e una carrellata-inchiesta su una nuova serie di golpe nel Mediterraneo, quelli passati e gli ipotetici futuri, vedemmo una donna grossa con un cappotto taerlie-forti e il carrello della spesa dalle rotelline stridenti.

Il giornalaio la guardava con tutto lo sbigottimento che la sua scarsa intelligenza riusciva a fargli espimere: «’A signò mica siamo dar macellaro». «E nun stamo nimmanco dar fiorista, srvognuno, damme sto' chilo de rollè de vitella e nun te pijà tanta confidenza».

Riconoscemmo il tono imperioso e insieme giacalatorio, deciso e papalino, della donna di casa romana con una coscia nei XX e un'altra nel XX1 secolo. Ogni possibilità di replica era esclusa, ogni intervento della ragione dialettica sarebbe risultato blasfemo, se non proprio eretico. Così vidi allontanarsi di corsa il giornalaio e ritornare di lì a poco sempre correndo con un pacchetto di carta da macellaio. «Ecco signò, so' sediscimilalire».

La matrona pagò, mise il pacchetto nel carrello e se ne andò accigliata. Quella scena ci turbò molto. Tornò alla mente una constatazione che la vita da clochard ci aveva fatto ormai dimenticare, e cioè che consumare consuma, realizza una mutazione psicologica i cui effetti sono ancora sconosciuti alla nostra generazione.

La sostanziale obbedienza se non 1'inconsapevole complicità che ci aveva assoggettato alla dittatura dei consumi stava mostrando la corda, una corda impazzita...

La società di merci e commerci che aveva irraggiato il suo splendore culturale con i Fenici e, soprattutto, con le repubblíche marinare tradì, in quei tiepido inizio novembre, un primo impercettibile scricchiolio, come la mandibola del tarlo che si chiude felice su una delicata decorazione d'un comò Luigi XIV.

Presi da un improvviso presagio traversammo la strada ed entrammo malvisti nell'immenso Iperirmercato. Apparentemente era tutto normale, la gente con aria spaesata e tramortita guardava i ripiani zeppi di merci e cibarie. Ma l'atmosfera era tesa, la topografia labirintica del luogo sembrava produrre le sue prime vittime. 1 clienti accusavano il cosiddetto «primo livello» di dissociazione: Cercavano i vari prodotti nei posti sbagliati.

Due signori di mezza età cominciarono, metodicamente, a vuotare una larga vasca di surgelati alla ricerca delle bombolette da schiuma da barba, mentre i detersivi venivano accatastati alla rinfusa da un'esile donna nella speranza di vedere emergere la frutta e la verdura di stagione. Le scatolette di tonno e di alici, i formaggi svizzeri e bavaresi. le bottiglie di vino e di liquori già contribuivano a formare sull’impiantito un primo strato limaccioso, sul quale gli avventori si muovevano a fatica, alla ricerca del'oggetto del desiderio. Desideri volatili, mutevoli, che ognuno, quasi ansimando, aveva la sensazione di stare per soddisfare, in quella gran gabbia dove s'era infilato.

I commessi dell'Ipermercato, in camice bianco, presto dovettero fronteggiare le richieste più assurde, mentre un'incredibile quantità di merce giaceva ormai sparsa attraverso corridoi e slarghi.

Le casse restavano mute. Le signorine, del tronco rigido, sedute dietro, sembravano inchiodate. Chi nervosamente s’aggiustava il fermacapelli, chi riposizionava un ricciolo, fissavano meccanicamente ora le bocche semivuote dei cassetti, ora i display dai numeri profilati da una fredda luce azzurrognola. Poi alzarono gli occhi e guardarono, con un singolare sgomento, improvvisamente infiltratosi tra il rimmel e il fard la scena lì davanti.

Anche io, le mie zecche e gli altri ospiti eravamo ad un tempo tramortiti e affascinati, come davanti ad uno spettacolo piacevolmente surreale di Grock.

La gallina che per anni aveva ottenuto il becchime mettendo in moto automaticamente un organetto e danzando nervosamente, s`era decisa, tutto ad un tratto, di cambiare gesto e ballo. E il becchinne, che ormai aveva riempito tutta la base della gabbia, fuoriusciva, cadeva sul pavimento, rotolando lentamente inondava l'Ipermercato, mescolandosi alle merci.




LA ROMA «FINIS MUNDI» DI FIORI
a cura di Eusebio Ciccotti

Come giallista Giuseppe Fiori (in coppia con Luigi Calcerano) ha firmato diversi libri (L’uomo di vetro, Il Ventaglio, Roma, finalista al Mystfest 1988; tradotto in russo con il titolo Kto je ti, luda?, Galart, Mosca. 1991; Sherlock Holmes, Archimede, Milano, 1989; Serpentara P.S., La Nuova Italia, Firenze, 1992), ma anche ottimi saggi divulgativi (Agatha Christie, Oscar Mondadori, Milano, 1994; Storie di spie, La Nuova Italia, Firenze, 1996).

Spesso il set preferito dai due scrittori è Roma, città nella quale sono nati e cresciuti. In Filippo e Marlowe indagano (Valore Scuola, Roma, 1996), per esempio, gli autori hanno addirittura parodiato il giallo, perché essi «sono i primi a non credere al `giallo'. Ecco che allora la ricerca della verità diventa mero gioco, gusto di risolvere rebus e sciarade, al di là d'ogni edificante filosafia 1» .

Ma, spesso, la verità nella fiction (come del resto nella realtà) è difficile da definire, soprattutto quando il racconto del mondo possibile si colloca, proditoriamente, tra giallo e surrealtà, come nella migliore delle tradizioni (dai racconti di Poe ad Intrigo internazionale, passando per Assassinio sull'Orient Express).

Aspetto surreale che Fiori, nei testi che firma da solo, coltiva, dopo aver messo da parte per un momento i casi zeppi di «garbuglio» gaddiano, infilandosi in storie dove non è difficile trovare echi di quell'assurdo quotidiano che da Kafka arriva a Buzzati attraverso le derive di uno Ioneseo o di un Robbe-Grillet. Un inondo tra «fantastico», «assurdo» e «surreale» (usiamo i termini senza stuzzicare discorsi teorico-ontologici sul «sottogenere», che tanto si è disquisito: ed ora, dopo i video «taroccati» di Bin Laden, chissà quanti saggi e simposi ci aspettano su Fiction reale e Realtà finzionale), in cui l'accadimento oscilla continuamente fra quei due classici poli individuati da Todorov: le leggi della natura o la violazione delle medesime. Come nel breve racconto PRIVACY2, dove un misterioso uomo « medio» affitta una camera in un villino, in stile inglese, da una strana grassa signora, non uscendo da questa per giorni. Poi, lo scopri remo - lo vediamo attraverso la «soggettiva» della donna entrata nella camera, infastidita dalla prolungata assenza dell'ospite - mentre viaggia su un trenino giocattolo che ha montato in camera, tra coperte, cuscini e mobili. Il finale, drammatico, è di un lacerante surrealismo, tra sogno e automatismo narrativo: una chiusa che non stonerebbe in un racconto firmato da Breton, in uno scenario cinematografico di Desnos, o in un corto di Svankmajer 3.

Con Clochard, Fiori cala la visione strana dei suoi personaggi nel mondo normalissimo del «quotidiano romano». Una frastagliata ed inconsueta «realtà» metropolitana già incontrata dal lettore nei precedenti lavori (falsi cornmissari ed inaffidabili infermieri; presidi e professori spostati; misteriosi extracomunitari e chimici-ecologici, una «varia umanità» brulicante tra uffici, scantinati, linee d'autobus tortuose e neo quartieri di periferia dai nomi geneticamente finzionali quali «la Serpentara») sembra non voler; ostinatamente, cedere la scena. Ma mentre lì il tutto - personaggi, azioni, scenari, scenografie d'interni - era ancora tenuto insieme da un filo raziocinante -vanamente investigativo - qui, invece, ogni collegamento è saltato. I personaggi - soprattutto la coppia tedesca, che vive attraverso l'articolo di giornale -, per quanto diversamente soddisfatti del loro status, appaiono scollati dalla realtà nella quale, stranamente, fanno le viste di muoversi a loro agio.

Toponomasticamente la storia guadagna un'area quasi centrale, «piccolo-medio borghese», della capitale. Dove tutti dovrebbero essere «normali», «appagati» da un garantito benessere, e vivere una tranquilla vita lavorativa (così' si dice), aspettando le meritate ferie. Cosa apparecchia la città (leggi: il mondo, la vita), quotidianamente, davanti agli occhi del barbone che Fiori, diligentemente, non esplicita ma ci lascia immaginare? Niente, verrebbe da dire. Al mattino ognuno esce di casa normalmente, quasi correndo; passa dal giornalaio, accompagna i figli all'asilo, poi tracanna il secondo caffè, e infine via, sempre più veloce, al lavoro. E non si fa punto caso a quel barbone che sta lì da anni, di fronte al nostro stabile, accanto alla scuola dei nostri figli, all'angolo dell'Ufficio postale. Quel tizio, apparentemente inattivo, studia ogni battito della città, le carpisce il suo segreto di Sinfonie der Grosstadt. Egli registra con i suoi occhi, da telecamera mobile, tutto, compresi noi che gli attraversiamo il campo visivo ogni mattina e, pur guardandolo, non lo vediamo. Quel privilegiato posto di osservazione di cui ignoriamo l'esistenza è reale; un giorno, per uno scherzo della superproduzione globale e conseguente taglio dei posti di lavoro, per una guerra di troppo, potrebbe dlivenire il nostro posto («di lavoro»).

Dunque protagonisti di Clochard siamo noi, centrifuigati dentro una vita superveloce che ha bruciato i più ottimistici auspici di Marinetti. Una attività frenetica e stressante che ci impedisce di vedere l'«altro». Quel diverso, quell'emarginato «ospite» fisso dei programmi televisivi, evocato nei nostri discorsi elettorali, cui dedichiamo ipocriti convegni, ma che, ovviamente, volutantente, ignoriamo nella vita reale. Perché aiutare sinceramente, onestamente, l'altro (cioè io, tu, lui, lei) costa fatica: è più riposante e remunerativo parlarne, l'altro è il vero business del terzo millennio.

Il clochard, il giornalaio, la signora grassa, i clienti dell'ipermercato, Hans, e Frieda, siamo noi. Come la gallina impazzita che fa pensare al teatro di Kantor. Fiori, ricreando una atmosfera bulgakoviana, sembra dirci che siamo, irrimediabilmente, finiti dentro il meccanísmo impazzito di produzione, consumo e metastatizzazione; amalgamati con le merci, inservibili automi di cartone (peccato non essere cartoni animati, lì, non altro, c'è l'immortalità garantita).

La narrazione oscillando, come anticipato, tra minute osservazioni realistiche e situazioni surreali, si affida a più punti di vista: quello del clochard, del giornalista, di Hans, di Frieda. Una mobilità che crea suspense, nonostante l'azione appaia come gelata. La lingua riflette anch'essa questo dinamismo della regìa: è giocata su diversi registri linguistici. Dall'italiano standard reso nelle varie sfumature - da quello specialistico e tronfio del giornalista, tutto preso tra economici e sociologia, a quello diaristico «letterario», ma più asciutto, del protagonista-voce narrante, che «involontariamente» tradisce un passato tra libri e musica cólta -, agli irresistibili spezzoni di romanesco dei personaggi secondari (che vagolano come schegge di vita nella nostra finzione quotidiana). Per non tacere, infine, del titolo: dove troviamo «clochard», termine nel quale l'autore vi vede forse una connotazione positiva, una probabile celata e mai perduta dignità esistenziale, quasi una «nobiltà culturale» che il termine francese mantiene e che la forma «barbone» non ha ancora acquisito.

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