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Eroi di carta
E’ importante recuperare schegge di memoria narrativa quando si parla e si scrive di un periodo della propria vita? Molti ne fanno a meno, pochi non ne hanno affatto, ma qualche altro, bizzarramente e ostinatamente, rimane, più o meno, legato anche a quelle schegge…
All’inizio degli anni ‘60 la generazione nata durante la II guerra mondiale (la mia generazione) stava finendo gli studi liceali, se era di estrazione borghese (termine che, alla fine degli anni ‘60, sarebbe risuonato come una condanna).
Letture importanti già avevano bussato alle porte di quella generazione e gli occhi si erano spalancati su un’Italia così diversa da quella vissuta dai padri e dai nonni: quel libero e importante presente era proprio il luogo che quei diciassettenni e diciottenni aveva una gran voglia di abitare. Una generazione onnivora di esperienze, di letture, di storie, anche passate, anche future (con la fantascienza).
E questa insaziabile fame e sete di storie non si nutriva solo di testimonianze ed esperienze reali, di libri e di films, ma era stuzzicata anche da pietanze più semplici e digeribili.
Parlo delle storie a fumetti di quel periodo, di quegli effimeri eroi di carta destinati a non deprimere il nostro rapporto con la lettura, ma anzi a rinsaldarlo.
Eroi di carta leggeri, come le stesse nuvole di fumo sulle loro teste, che ci parlavano di geografie lontane (e qualche volta improbabili) e di storie non retoriche.
Il coraggio, il sorriso, la generosità erano gli ingredienti costanti che avevamo appreso dai grandi eroi di carta americani: Flask Gordon, l’Uomo mascherato, Rip Kirby e qualcun altro a seconda dei gusti. Ma avevamo una non confessata necessità di figure meno distanti, meno ammirevoli, più nostrane e che, nello stesso tempo, si muovessero nei contesti tipici dei luoghi di avventura, primo fra tutti il grande WEST!
Da questa necessità, da questo desiderio sono nati gli italianissimi americani Tex Willer, Blek Macigno più noto come il grande Blek, Capitan Miki. E se gli ingredienti delle loro storie erano simili a quelle dei fratelli maggiori, pure, ai nostri occhi c’era qualcosa di diverso che ce li rendeva, se non geograficamente, antropologicamente più vicini: una salutare miscela data dal gusto per l’iperbole e da una robusta dose di ironia.
Decisamente un’inversione di tendenza rispetto ai fumetti letti dalle generazioni cresciute durante il fascismo, anche per questo li abbiamo amati tanto, perché li sentivamo nostri e ci aiutavano a marcare una frattura con ciò che avevamo dietro di noi.

Tex Willer segnava però una diversità rispetto a Capitan Miki e al Grande Blek: tutti e tre i personaggi erano alla testa di un gruppetto compatto e solidale (rigorosamente maschile) che esprimeva varietà e complementarietà di caratteri, ma solo Tex Willer era leggibile - e di fatto era letto - anche dagli adulti, mentre le storie di Blek Macigno e di Capitan Miki erano dichiaratamente costruite per i ragazzi. Questa caratteristica, dovuta principalmente al maggior spessore del personaggio e alla maggiore maturità narrativa, ha permesso al ranger più amato dagli italiani di rimanere tale anche nei decenni successivi.
Se nella vita reale i gruppetti tutti al maschile o tutti al femminile non esistevano quasi più - venivamo tutti da anni di classi miste - e le “amiche” avevano cominciato a darci dei punti nello studio e non solo, nella vita a fumetti si sarebbe dovuto aspettare fino alla fine del 1998 prima di vedere con Julia una vera eronia di carta.
C’è comunque un’ombra femminile che accompagna da sempre il volo di Aquila della notte - il nome che gli indiani Navajos avevano dato a Tex - ed è quella di Lilyth, la madre indiana di Kit.
Certo è solo l’ombra di una vedovanza, dato che già nella bellissima storia del 1969 “Il giuramento” Lilyth muore, in un lungo flash back, per una pestilenza che decima il suo popolo e Aquila della notte giura sulla sua tomba una terribile vendetta nei confronti dei trafficanti bianchi che avevano causato la strage.
Ed ecco un altro segno dei fumetti italiani ambientati nel West: l’assenza di manicheismo, di divisione netta tra bianchi buoni e cattivi indiani, che porterà poi il cinema americano a firmare opere “dalla parte degli indiani d’America” come Soldato blu di Ralph Nelson, Piccolo grande uomo di Arthur Penn, e, più recentemente Balla con i lupi di Kevin Costner.
Una storia per tutte, esemplare di questa evoluzione, è Sangue navajo del 1961, e va letta, non raccontata!

Lo stesso gruppo di autori, il trio EsseGesse (Sinchetto, Guzzon e Sartoris), crea, all’inizio degli anni cinquanta, Capitan Miki e il Grande Blek. Miki, ha solo sedici anni quando, rimasto orfano, decide di arruolarsi nei Rangers del Nevada.

Capitano lo diventa presto grazie a imprese subito leggendarie, temperate dalla presenza anomala di due compagni “adulti” Doppio Rhum e il dottor Salasso che incarnano l’aspetto umoristico e, a volte, satirico della serie.
Con loro acquista spazio il personaggio dell’”eroe buffone” - nessuno dei tre pards di Tex, l’indiano Tiger Jack, il figlio Kit e il simpatico Kit Carson, lo era - che ha l’importante funzione di detronizzare la storia dai suoi aspetti più alti (ideali, miti, ma anche retorica) per restituirla alla banalità e alla inevitabile clownerie del quotidiano.

L’eroe buffone è il compagno ideale - dopo la fine dei terribili anni quaranta doveva pur tornare il sorriso! -, un po’ esagerato e un po’ cialtrone meglio se proposto da personaggi improbabili: insomma un sorriso inventato!
Della stessa pasta è il professor Cornelius Occultis che, con il giovane Trapper Roddy, ha il compito di fornire siparietti comici, alle storie di Blek Macigno.
Non solo, dunque, semplice “spalle”, come nel cinema e in teatro si vedeva ormai da anni, ma personaggi autonomi, con una funzione narrativa antinomica, che avevano illustri ascendenze nelle maschere italiane, prima fra tutte quella del Dottor Balanzone.
Il Grande Blek, con la sua evidente muscolatura, e la lunga e bionda capigliatura sovrastata da un copricapo alla Davy Crockett, è l’ideale dell’eroe che lotta per la libertà. Il contesto geografico è quello situato tra le montagne del Nord America e il Canada e quello storico è il combattimento contro gli indiani e contro le Giubbe Rosse per l’indipendenza dall’Inghilterra.

Fame e sete di storie, dicevo all’inizio, mai saziata, gli eroi di carta sono profondamente mutati - tranne Tex - e da virtuosi sono diventati virtuali, ma la nostra richiesta è ancora quella che è all’inizio de Le mille e una notte, quando Shahrazàd…
Si, finalmente incontriamo una donna, proprio all’inizio delle storie, una possibile generatrice di tutte le storie, la figlia maggiore di un visir, la cui sorte era segnata dalla follia del re che, per vendicarsi del torto subito dalla sua sposa, uccideva una fanciulla ogni notte. Per inciso anche i nostri Tex, Blek e Miki erano salvatori di fanciulle in pericolo.
Allora Shahrazàd ha un piano e raccomanda alla sorella minore Dunyazàd - Quando sarò dal re, io manderò a cercarti, verrai e dovrai dire “Sorella, raccontaci una storia con cui passare la veglia…”

Ed è così, di storia in storia, che la bellissima narratrice salva se stessa e noi lettori.
Che questo principio valga anche per le storie minori scritte su nuvole di fumo?…

Giuseppe FIORI

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