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Il federalismo scolastico
da Tuttoscuola, numero 486
La legislazione scolastica nelle ultime due legislature ha proceduto con una serie di stop and go che ha finito per rappresentare il fattore prevalente dell’intervento di politica educativa per le scuole.

Questo non vuol dire che norme di manutenzione dell’esistente non siano state numerose ed applicate, ma è altrettanto vero che è stato impossibile affrontare ed attuare disposizioni realmente innovative dell’ordinamento scolastico.

Eppure il terreno era stato, negli anni ’90, opportunamente predisposto con il trasferimento delle funzioni e dei poteri agli enti locali (il c.d. federalismo amministrativo) e con l’autonomia didattica e organizzativa delle scuole. L’art. 21 della legge Bassanini del ’97 è stato il motore in grado di avviare una riorganizzazione dell’intero sistema fino ad allora gestito, quasi interamente, in maniera centralistica. Subito dopo, infatti, alcune tessere del mosaico cominciarono a comporre il nuovo scenario formativo: la dirigenza ai Capi d’istituto, la riforma dell’amministrazione centrale e periferica conseguente al decentramento delle attività di gestione, la parità scolastica, l’elevamento dell’obbligo d’istruzione (che, però, in meno di dieci anni ha avuto tre quadri di riferimento normativo ed educativo diversi), l’istruzione e formazione tecnica superiore e una perenne e insoddisfatta ricerca della formula giusta per gli esami di diploma.

Nello stesso periodo la legge costituzionale n. 3 del 2001 modificava i fondamentali dell’organizzazione scolastica introducendo profili di federalismo che sono stati variamente giudicati, come troppo timidi o troppo avanzati secondo valutazioni anche di natura geopolitica.

Questo nuovo complesso assetto, finora inattuato, prevede, com’è noto, una potestà legislativa esclusiva dello Stato, una potestà legislativa esclusiva delle Regioni e una potestà legislativa concorrente o ripartita, i cui postulati sono, sinteticamente, i seguenti.

Lo Stato ha legislazione esclusiva in tema di norme generali sull’istruzione e sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che necessitano di una garanzia su tutto il territorio nazionale.

Peraltro, il nuovo articolo 116 della Costituzione ammette che in materia di norme generali sull’istruzione possano intervenire esplicite intese tra Stato e Regioni interessate, da formalizzare con legge ordinaria: infatti “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” sulla predetta materia “possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’art. 119”.

Il secondo postulato attiene alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni: “Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”.

La potestà legislativa ripartita o concorrente definisce una legittimità a legiferare, dello Stato e delle Regioni, con diversa intensità: infatti mentre al primo spetta di fissare con le sue norme, appunto, i princìpi fondamentali, le Regioni hanno il compito di svolgere questi princìpi organizzando e adattando la loro legislazione alle condizioni e agli interessi locali.

Si pone, a questo punto, il problema della previetà o meno della fissazione dei princìpi fondamentali: in merito è bene notare che, in occasione della riforma regionale degli anni ‘70, si è affermato un orientamento della Corte Costituzionale, in base al quale non necessitano leggi quadro preventive per la determinazione dei predetti principi, dato che è anche possibile ricavarli dalla legislazione vigente. Nel passato, infatti, un esempio di fissazione successiva dei princìpi fondamentali si è avuto con la legge quadro sulla formazione professionale n.485/78, che intervenne dopo l’emanazione di alcune leggi regionali in materia.

Il nuovo articolo 117, scaturito dalla legge costituzionale n. 3, destina l’istruzione alla potestà legislativa concorrente, facendo, nel contempo, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche.

Affida invece, alla legislazione esclusiva delle Regioni, il settore dell’istruzione e della formazione professionale con un notevole ampliamento rispetto al precedente dettato costituzionale.

Nell’ambito dell’istruzione, dunque, né lo Stato potrà emanare norme di attuazione né le Regioni norme di principio.

I connotati del c.d. federalismo scolastico hanno dunque, nella loro attuale configurazione, un livello di complessità e di innovazione che non ha finora permesso una loro attuazione condivisa dalle forze politiche in campo. Ecco perché nell’attuale legislatura il problema si ripropone tal quale, nonostante la legge Moratti abbia previsto un doppio binario con i percorsi liceali nell’ordinamento statale e quelli professionali nell’ordinamento regionale e le “disposizioni urgenti in materia di istruzione tecnico-professionale e di valorizzazione dell’autonomia scolastica” di Fioroni abbiano ipotizzato, invece, un riordino e un potenziamento del settore attraverso la riduzione degli attuali indirizzi e il loro ammodernamento nell’ambito di ampi settori tecnico-professionali.

Ma quello che non è stato sufficientemente messo in luce, anche nel gioco degli stop and go di questi anni, sono gli elementi di contesto in cui il federalismo scolastico, con il suo potenziale innovativo, deve trovare attuazione; condizioni ed elementi che le norme di manutenzione dell’esistente hanno provveduto ad aggiornare e modificare, né poteva essere altrimenti dato che, per lo più, tali disposizioni sono contenute nelle annuali leggi finanziarie.

Perché se è vero che la normativa scolastica nelle leggi finanziarie ha sempre caratteristiche di contenimento della spesa pubblica è anche vero che negli ultimi anni tali leggi hanno ospitato disposizioni di vario tipo, data la loro inevitabile connessione con la spesa pubblica. Così sono state, tra l’altro, disciplinate in finanziaria il reclutamento dei presidi e dei docenti, l’assunzione del precariato, e le caratteristiche dell’organico delle scuole.

Se si volesse comunque tracciare un minimo comun denominatore normativo tra finanziarie di indirizzo politico diverso, esso sarebbe certamente rintracciabile tra due esigenze solo apparentemente contraddittorie: da un lato la riduzione degli organici del personale docente, amministrativo, tecnico e ausiliario delle scuole e dall’altro l’ esigenza di stabilizzazione del precariato scolastico (la cui età media nella fase del contratto a tempo indeterminato è di quarant’anni). Contraddittorio solo in apparenza perché se è vero che la contrazione dei posti in organico penalizza solo il numero delle supplenze e quindi l’aspettativa di lavoro dei precari, il numero dei precari in attesa di stabilizzazione è ancora talmente elevato che, almeno fino alla fase attuale, le due manovre congiunte sono apparse sufficientemente coerenti.

Il decreto di agosto contenente le misure di finanza pubblica si spinge oltre, con la previsione di “un piano programmatico di interventi volti ad una maggiore razionalizzazione dell’utilizzo delle risorse umane” da realizzare entro l’anno scolastico 2011/2012 ( com’è noto l’obiettivo del pareggio di bilancio deve essere raggiunto nel 2011).

L’entità complessiva della contrazione è tale – solo per il personale amministrativo, tecnico e ausiliario è del 17% nel triennio 2009/2011 – che si renderà necessaria una revisione dell’attuale ordinamento scolastico, sia nei profili organizzativi che in quelli didattici con misure che, nel recente passato, sono state adottate soltanto nella prospettiva di interventi riformatori.

Tali misure, anche se toccano ogni ordine e grado di scuole, è soprattutto nella secondaria superiore, che incideranno con maggiore rilevanza, dato che sono ipotizzati accorpamenti delle classi di concorso e ridefinizione dei curricoli vigenti e dei relativi quadri orari, con particolare attenzione a quelli degli istituti tecnici e professionali, che sono il nervo più scoperto dell’offerta formativa in Italia.

L’esigenza di rendere maggiormente flessibili l’impiego delle risorse umane in campo educativo si è manifestata già nel corso degli anni novanta – la prima indicazione normativa è contenuta nel decreto legislativo n. 35 del 1993 – e segnò una netta inversione di tendenza rispetto al proliferare delle classi di concorso dei decenni precedenti e alla conseguente rigidità nell’organizzazione della prestazione professionale dei docenti.

Alla vigilia del rilievo costituzionale dato all’autonomia scolastica e della riforma Berlinguer furono fatti passi concreti in questa direzione – i decreti ministeriali sono del 1998 – in tema di reclutamento, di mobilità professionale, di utilizzo del personale e di organici delle scuole anche attraverso la costituzione di ambiti disciplinari che aggregavano più classi di concorso. E’ infatti necessario ricordare che l’assetto delle classi di concorso, oltre a corrispondere a un quadro di certezze accademiche che partendo da un percorso di studi arriva alla docenza passando per un concorso a cattedra e una specifica abilitazione, interagisce direttamente con il quadro organico delle scuole e con i fattori inerenti lo status dei docenti. Tutto ciò a dimostrazione di quanto forte sia la connessione tra misure apparentemente solo organizzative e finanziarie e innovazioni in ambito ordinamentale.

Ecco il contesto in cui il federalismo scolastico, per la terza legislatura consecutiva, bussa alle porte dello Stato, delle Regioni e delle Scuole.

La “ revisione dell’attuale assetto ordinamentale, organizzativo e didattico del sistema scolastico” propugnata nella manovra finanziaria di agosto e che troverà compiuta realizzazione nel corso dei prossimi quattro anni scolastici dovrà necessariamente cercare un approdo più ampio sulla base delle disposizioni contenute nell’art. 117 della legge costituzionale n. 3 a modifica del Titolo V della parte seconda della Costituzione.

Già la Corte Costituzionale, nelle due precedenti legislature, è intervenuta con due sentenze ad allertare la normativa ordinaria sul dovere di coerenza di modi e di tempi con cui è necessario procedere verso quell’approdo.

La revisione dunque non può più essere solo manutenzione e razionalizzazione, termini che seppure hanno sempre identificato gli elementi di contesto ora appaiono inadeguati e minimalisti rispetto al quadro di riforme complessivo.

Quadro di riforma che tocca, principalmente la scuola secondaria superiore, il grado d’istruzione conclusivo del percorso che negli ultimi decenni è stato in grado di innovarsi soltanto in forza di progettualità e sperimentazioni sul campo. Il grado di istruzione in cui più fortemente è sentita la necessità di innovazione e di riforma.

Un sistema d’istruzione e di formazione unitario ed evoluto deve anzitutto determinare i livelli essenziali delle prestazioni – rientranti nella potestà legislativa esclusiva dello Stato – relative ai diritti civili e sociali che necessitano di una garanzia su tutto il territorio nazionale. Livelli essenziali che assicurano il diritto all’istruzione, il valore legale del diploma e il passaggio da una scuola a un’altra su tutto il territorio nazionale.

I nuovi percorsi di istruzione e formazione professionale che rientrano nella potestà legislativa esclusiva delle Regioni, dovranno essere finalizzati al conseguimento di titoli e qualifiche professionali di differente livello, la cui validità su tutto il territorio e la loro spendibilità nei paesi dell’UE è assicurata, appunto, dalla rispondenza ai livelli essenziali delle prestazioni.

Più complessa sarà la partita delle potestà legislativa concorrente o ripartita e più forte il rischio di una diversa intensità e sensibilità nell’esercizio della potestà tra le regioni del Nord e quelle del Sud in tema di organizzazione del servizio scolastico sul territorio regionale - che vede l’importante interazione della scuola autonoma – in assenza della determinazione dei principi fondamentali da parte dello Stato.

E la definizione stessa dei piani di studio vede, accanto ad un nucleo fondamentale omogeneo che ne connota l’identità su base nazionale, una quota riservata alle Regioni per l’attenzione alle realtà culturali locali e una quota riservata alla progettualità autonoma degli istituti.

L’ordinamento scolastico italiano è certamente già diventato, in quest’ultimo decennio, un sistema complesso e articolato che attende di completare il suo percorso, nell’ottica del conseguimento degli obiettivi di Lisbona, diretto al miglioramento della qualità dei risultati di apprendimento. Risultati, a geografia variabile, ma che penalizzano la scuola italiana nei confronti internazionali, secondo gli indicatori dell’OCSE.

In questa direzione, sostenibilità finanziaria del sistema nella salvaguardia delle garanzie raggiunte, riordino della secondaria superiore e organizzazione del servizio scolastico sul territorio regionale debbono poter trovare le intersezioni necessarie finora rinviate.


Giuseppe Fiori è stato direttore generale del Ministero della Pubblica istruzione con incarichi all’Ufficio scolastico regionale per la Puglia e alla Direzione Generale per il personale della scuola. Ha pubblicato articoli e saggi sui problemi strutturali e amministrativi della scuola e narrativa per ragazzi.
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