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Una scuola meno precaria


L’imperdibile occasione che la “buona scuola”, con le sue ingenti misure economiche, sta per fornire, ci impone una riflessione su nuovi modelli che coinvolgano il percorso scolare fino all’educazione per gli adulti.

Sembra giusto porre al centro del ricco dibattito sulla scuola in Italia il piano del Governo “La buona scuola”, tradotto nel recente disegno di legge, perché questa sarà la scena in cui i vari attori del sistema istruzione si misureranno nel tentativo di rinnovare profondamente uno spettacolo che vanta numerose repliche, con alcune varianti non sempre significative. Non si è più realizzata quella mobilitazione di idee e di elaborazioni che, all’inizio degli anni sessanta e alla fine degli anni novanta del secolo scorso, riallacciandosi al dibattito già presente dentro la Costituente, accompagnò l’istituzione della scuola media unica e, in tempi più recenti (ma non troppo), l’estensione dell’autonomia didattica e amministrativa a tutte le istituzioni scolastiche; eppure la scuola continua essere snodo fondamentale di una società complessa, che alla scuola pone domande e necessità nuove che, nella scuola, dovrebbero trovare almeno un riscontro significativo, se non qualche pur parziale soluzione.

Il fatto di aver messo la scuola come priorità nel programma del governo e all’attenzione dell’appena iniziato settennato presidenziale è un’occasione che non può essere sprecata e che va colta con responsabilità da tutti quelli che, pur dando giudizi molto diversi, soprattutto in relazione allo scarso approfondimento dei temi che vengono trattati nei testi governativi, pensano che non sia più possibile andare avanti per aggiustamenti parziali, restringimenti ed allentamenti della borsa della spesa pubblica e retorica su un personale che, al di là delle parole, vede ridurre lo spazio in cui esercitare un ruolo culturale e sociale che non deve e non può essere mortificato. Per questo in tanti vorremmo che le linee d’intervento e il cospicuo investimento di risorse finanziarie centrassero un obiettivo realistico: quello di iniziare a rendere la scuola, dal prossimo anno scolastico, meno precaria, nel senso più lato del termine, rispetto a quella attuale. Più stabile sia nei rapporti di lavoro con i propri insegnanti e sia nel garantire a tutti i cittadini l’esercizio di un diritto costituzionale fondamentale.

È estremamente importante analizzare cosa significa in termini di diritti/doveri e di organizzazione del personale il processo di stabilizzazione dei neo assunti, ma nello stesso tempo è responsabilità, di chi interviene sul tema, porsi la domanda essenziale: questo massiccio incremento di personale cosa dovrà fare? Non si può negare - al di là delle buone/ottime intenzioni di chi finora ha discusso i vari temi contenuti nella Buona Scuola - che tutto l’impegno speso a livello ministeriale, sindacale, politico (la scuola è anche un bacino elettorale molto importante, questo va ricordato) e di opinione pubblica è stato rivolto all’esercizio di trovare soluzioni che, incrementando l’organico in senso quantitativo, non spaventino troppo, non apportino modifiche eccessive in un assetto, rimasto tale ormai da troppo tempo. Questo è proprio il rischio maggiore.

Il confronto internazionale
Se si guarda com’è cambiato nel lungo periodo il profilo culturale degli italiani si vede come negli anni un incremento di competenze della popolazione si è comunque realizzato; ma ormai questo non basta più. Osservando i risultati, peraltro molto preoccupanti, dell’indagine OCSE All, Scott Murray (che in quegli anni era stato uno dei responsabili della ricerca e degli studi che si stavano sviluppando anche da parte dell’Unesco e della World Bank) notava, guardando in prospettiva gli anni dal 1960 al 1995, che in tutti i paesi OCSE, Italia compresa, le competenze di literacy e numeracy della popolazione fra i 17 e i 25 anni, evidenziavano ineguaglianze sia nella qualità della formazione iniziale - molto maggiori di quanto in genere si sarebbe supposto, e ben più rilevanti di quanto implicitamente espresso in termini di titoli di studio conseguiti - sia in relazione ai processi di acquisizione e perdita di competenze nel corso della vita adulta. L’incremento di competenze dei giovani italiani 17-25 si rileva dal 1965 ai primi anni ’70 (è l’effetto dell’istituzione della scuola media unica) e poi, dopo un rallentamento intorno agli anni ottanta, riprende debolmente a partire dall’inizio degli anni novanta. Scott Murray concludeva, proprio in relazione all’Italia, che, soprattutto nel confronto internazionale, si delineava un processo positivo, ma insufficiente, che non bastava, allora come oggi, a garantire uno sviluppo tale da consentire al nostro paese di stare al passo con le esigenze nuove e con i cambiamenti in atto a livello globale (da notare che la ricerca si era conclusa nel 2004, prima che si sentissero le avvisaglie della drammatica crisi economica attuale).

D’altro canto si notava la scarsa partecipazione della nostra popolazione ad attività di istruzione e formazione in età adulta. A distanza di circa 10 anni tutto si conferma ancora nella più recente indagine Ocse PIAAC (2013): la popolazione italiana in genere, anche i giovani fino a 25 anni, è all’ultimo posto sui ventiquattro paesi partecipanti e la presenza degli adulti in attività di studio o formazione supera di poco il 23%. La lettura di Scott Murray poneva un problema che è ancora presente e importante: non basta sostenere incrementi dei titolo di studio in termini quantitativi, ma si deve intervenire sulla qualità dei processi educativi che si attivano, non trascurando i differenti target di popolazione; questo se si vogliono produrre cambiamenti significativi per gli individui e per il sistema paese nel suo complesso. Qualità quindi della formazione iniziale e dell’educazione e formazione in età adulta, da qui bisogna partire per operare positivamente con la scuola e sulla scuola.

Il nuovo che non avanza
La legge finanziaria del 2007, stabilendo nel medesimo quadro legislativo il consolidamento a dieci anni della scolarità obbligatoria e la riorganizzazione dell’Educazione/istruzione/formazione in età adulta a livello territoriale, attraverso reti dedicate, avrebbe potuto mettere in moto un processo positivo, ma gestione burocratica, tagli di spesa, timidezza, scarsa volontà, forse anche mancanza di idee e prospettive strategiche continuano a impedire il cambiamento, a produrre ogni anno la conta degli abbandoni scolastici e a registrare una presunta irrecuperabilità dei Neet (Not in education, employment or training). La stessa stanca e piatta gestione rischia ormai di ridurre a un vuoto, rituale esercizio linguistico la progettazione in termini di competenze e di obiettivi di apprendimento, che pure ormai compaiono anche nei documenti ufficiali del MIUR, nelle certificazioni che gli studenti ricevono ed esibiscono, nelle varie declinazioni che presenta il nostro sistema di valutazione - per fare solo qualche esempio. Qui si pone allora la domanda: cosa faranno i nuovi docenti? Saranno inscatolati nel sistema attuale di discipline poco comunicanti, in un’organizzazione di orari scolastici che riproducono la struttura di organici stabiliti in via amministrativa, che non risponde alla necessità di rendere le strutture organizzative flessibili, capaci di adattarsi a bisogni di apprendimento critico del nuovo, di rinforzo e/o di sostegno, di inseguimento delle curiosità, perché poi questo dovrebbe essere il senso della scuola? La magica parola organico funzionale sembra ora essere la saldatura tra le due esigenze primarie: stabilizzazione del precariato e nuova progettualità dell’autonomia scolastica.

L’organico funzionale
La stabilizzazione del precariato è legata alle condizioni fondamentali della sostenibilità economica del piano e del pieno utilizzo delle risorse professionali neo-assunte. L’organico delle scuole diventa così, ancora una volta, l’anello di congiunzione di queste due condizioni: infatti il previsto intervento finanziario, il più rilevante di questi ultimi anni, necessita di tutte le possibili e realizzabili economie interne, e l’unica economia interna significativa in questo campo consiste nella diminuzione delle spese per le supplenze. Per cogliere il dato essenziale di questa strategia bisogna considerare che, finora, le annuali immissioni in ruolo venivano effettuate esclusivamente per ricoprire, in tutto o in parte, cattedre rimaste senza titolare, quindi in organico di diritto. Tali contingenti di nomine lasciavano inevitabilmente scoperte le altre cattedre in organico di fatto, destinate per lo più ai docenti precari. Ecco che la variegata platea di docenti precari, nonostante le periodiche quote di stabilizzazione, sembra perfino alimentarsi ben oltre “i precari storici”. Nell’anno scolastico in corso le supplenze sono circa 135.000 complessivamente, tra annuali e quelle fino al termine dell’attività didattica (la maggior parte) e circa 70.000 sono i docenti inclusi nelle graduatorie a esaurimento impegnati nelle supplenze. L’organico di diritto è lo strumento che consente di effettuare, oltre alla mobilità del personale, i nuovi contratti a tempo indeterminato; l’organico di fatto configura la spesa effettiva per tutto il personale della scuola, inclusa quella assai rilevante per i contratti a tempo determinato, cioè le supplenze. L'organico delle scuole ha costituito nel tempo la necessaria scacchiera rigida su cui viene collocato, sulla base del numero delle classi, l'orario settimanale delle lezioni e l'orario di cattedra settimanale dei docenti: essa rappresenta un punto di equilibrio rigido tra funzionamento didattico e amministrativo delle scuole, l'organizzazione delle prestazioni professionali dei docenti e la problematica relativa al loro reclutamento. Anche se la sua connotazione di rigidità è andata via via affievolendosi e la sola parola organico flessibile appare come un ossimoro, ora la sfida è che l’organico funzionale non lo sia.

L’assunzione degli oltre centomila andrà a saturare l’intero quadro organico delle scuole italiane nel suo fabbisogno complessivo nel breve periodo e fino all’arrivo dei vincitori di concorso, quindi generalizzando i contratti a tempo indeterminato e modificando la scacchiera con la sostituzione, nelle previsioni più ottimistiche, dell’organico di fatto con l’organico funzionale. Quest’ultima è una figura già presente nell’ordinamento italiano dal 2012 (alla fine degli anni novanta fu introdotta in via sperimentale), ma finora non ha mai superato la prova del fuoco, ovvero quella di realizzare significative economie. Infatti le risorse professionali dell’organico funzionale o dell’autonomia (in buona parte i neo-assunti) saranno impiegate, come prevede il piano, per il potenziamento dell’offerta formativa, per l’estensione del tempo pieno e per le tante e importanti attività complementari all’attività didattica, ma saranno principalmente a disposizione della singola scuola o di una rete di scuole per supplire i colleghi assenti a vario titolo.

A questo punto vale la pena di fare una prima valutazione sulle potenzialità del nuovo organico e sulla funzionalità delle reti di scuole. Infatti, al di là degli aspetti di dislocazione territoriale dei docenti, il nuovo assetto organico è concepito come strumentale ad una più avanzata realizzazione dell'autonomia organizzativa e didattica dell'istituto e al connesso tema di un più razionale e proficuo impiego delle risorse professionali esistenti. Nella fascia d’istruzione primaria, dove le risorse professionali non sono ordinate in classi di concorso, l'organico funzionale può certamente privilegiare meglio quest’ultimo aspetto con un impiego più razionale e meno frammentato dei docenti. Mentre, nella fascia d’istruzione secondaria di primo e secondo grado, l’attribuzione delle risorse alle diverse classi di concorso, effettuata in modo da assicurare gli insegnamenti previsti dai quadri orario dei corsi di ordinamento e dei corsi sperimentali, non trova un facile utilizzo per l’organico funzionale. L'attribuzione delle classi di concorso alle risorse di organico funzionale è comunque effettuata con riferimento alle specifiche competenze richieste dagli insegnamenti integrativi e dalle attività previste dal P.O.F.

La potenzialità delle risorse assegnate si giocherà, dunque, nel bilanciamento di questi tre compiti:
- insegnamento curricolare;
- altre attività individuate nel Piano dell’offerta formativa;
- sostituzione docenti assenti.

Le reti di scuole sono state disciplinate per la prima volta dall'articolo 7 del Regolamento sull’autonomia delle istituzioni scolastiche n. 275/99, secondo cui le istituzioni scolastiche “possono promuovere accordi di rete o aderire ad essi per il raggiungimento delle proprie finalità istituzionali.” A questo punto emerge la necessità di un approccio più sistemico alla nomenclatura delle reti scolastiche, che finora hanno espresso soltanto significative ma sporadiche opportunità. Infatti nell’ottica di un’estensione delle risorse professionali collocate nell’organico funzionale all’autonomia, la singola rete di scuole rappresenterà uno snodo virtuale per l’organizzazione e l’utilizzazione di tali risorse. E ciò potrà realizzarsi al meglio se le singole reti, sia per le loro attività complementari alla didattica e sia per le attività gestionali, andranno a comporre un sistema sufficientemente esteso, fluido e dinamico.

Le prospettive d’innovazione
Con le attuali assunzioni e con quelle derivanti dai futuri (ma non troppo) concorsi la scuola si confermerà l’impresa italiana che assume il maggior numero di laureati in discipline umanistiche e scientifiche e, poiché l’impegno economico sarà notevole e il personale neo stabilizzato e neo-assunto occuperà le diverse posizioni della scuola per molti anni, questo sarebbe il momento utile per una fase di elaborazione e di sperimentazione di modelli, almeno su alcuni punti:

1. Prima di tutto la riqualificazione del tempo pieno nel primo ciclo, cogliendo occasione dei nuovi insegnamenti di arte e musica, per ridisegnare un fare scuola quotidiano in cui non si sommano ore dedicate a diverse attività, ma si affiancano e si armonizzano elementi coerenti a percorsi di crescita, calibrati sui bisogni di bambini e di adolescenti;

2. una sperimentazione guidata in modo scientificamente controllato nel biennio della secondaria superiore perché diventi il luogo delle scelte consapevoli per i ragazzi, sostenuti nella difficile fase in cui le opzioni di oggi peseranno sul loro futuro (sperimentazione delle modalità attraverso le quali l’acquisizione di conoscenze ben definite consente lo sviluppo di competenze fondate su una molteplicità di approcci al sapere);

3. la definizione, nel triennio, di modalità di lavoro di team di docenti che imparino a mettersi in gioco, tutti insieme, per rendere disponibili ai giovani quelle “ costellazioni” di sapere e saper fare, che devono essere riconosciute e riconoscibili come articolazioni di discipline criticamente padroneggiate;

4. un paradigma educativo rivolto agli adulti che hanno una pluralità di bisogni di riqualificarsi, di apprendere nuove conoscenze e di arricchire i propri patrimoni di conoscenze.

Infine, la costruzione di uno stabile sistema in grado di offrire al Paese la prospettiva di una scuola veramente buona dovrebbe significare la disponibilità di luoghi di lavoro in cui, in modo equilibrato e senza fumoserie lessicali, si mettano alla prova modelli nuovi e responsabilità nuove, che superino la rigidità, più che obsoleta, delle disciplinarità del passato e dia spazio alla costruzione di percorsi che intrecciano curiosità, gusto della scoperta e piacere di apprendere. L’incremento di personale diventerà una risorsa, se sarà collegato a una prospettiva responsabile e credibile, capace di coinvolgere vecchio e nuovo personale, perché il nostro sistema non può correre il rischio di veder replicare obsoleti e stanchi rituali, che niente hanno a che vedere con i bisogni di giovani che vivono, in un mondo molto complicato, la fase più critica dell’esistenza.

Approfondimenti:
- Gallina V., Letteralismo e abilità per la vita, Roma 2006.
- Isfol Ocse PIAAC – Rapporto nazionale 2013.

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