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In Prima Elementare, nel dopoguerra
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L'autore con se stesso,
da bambino
La scuola. Questo è un capitolo a sé nella vita di tutti noi e a volte non è nemmeno tanto interessante. Eppoi, più che un capitolo, può noiosamente riempire le pagine di un intero libro, perché una cosa è certa, che ognuno ha un ricordo dolce-amaro con la scuola e che quanto gli è sequenzialmente accaduto in quelle quattro mura sbrecciate è pur sempre qualcosa di banalmente unico.

Ho conosciuto un notaio che soffriva di una inestirpabile forma di insonnia. Aveva però trovato un modus vivendi, per le sue notti di veglia, veramente singolare: si era programmato, con molta calma e con molte ore notturne a disposizione di rifarsi tutto il suo liceo classico.

E già, infatti, finito il liceo lui, non solo non si era rivenduto tutti i libri, come la maggioranza di noi, ma li aveva sistemati in bell’ordine in soffitta.

Così, in un’altra stagione della vita aveva potuto corrispondere, senza traumi, ad un’esigenza primaria: ripercorrere i suoi 16,17 e 18 anni attraverso quegli insegnamenti che avevano fatto di lui l’uomo che era. O forse più semplicemente l’uomo che era poi andato a studiare Giurisprudenza a La Sapienza.

Non so come sia finita la sua storia col sonno, quando l’ho frequentato stava ancora a metà del primo liceo e faticava molto, di notte, tra le pene d’amore, in greco, di Ermesianatte e quell’amara umanità che traspariva nelle commedie, in latino, di Cecilio Stazio.

Gli auguro che, alla fine, possa aver riconquistato una vita notturna più tradizionale, anche prima dei terribili esami di terzo liceo, in cui, appunto, si portava il programma di tutti e tre gli anni.

I miei fremevano che iniziassi la prima elementare, ma bisognava che avessi la bellezza di sei anni, un’età che a loro sembrava già molto avanzata. Più tardi generazioni di genitori hanno avuto questa premura e lo stesso Ministero da cui discende l’istruzione ha ritenuto che prima è meglio, fino a quando qualcuno vorrà iniziare la scuola prima di prima.

Ma, per fortuna, la mia scuola elementare Giuseppe Mazzini era lì, accanto a Parco Nemorense a Roma, come un moloch grigio e impenetrabile, per i bambini di cinque anni.

Quando andavo al Parco la guardavo preoccupato come si guarda il destino, mi rasserenava solo il pensiero che avevo ancora un altro anno per guardare veramente in faccia il mio destino. Poi il fulmine a ciel sereno.

L’idea, credo, fu di mia madre che aveva un ricordo bellissimo della sua vita scolastica sabina “La mattina portalo con te, in classe, gli farà certamente bene e imparerà ad essere più buono.”

La proposta ormai era stata lanciata e la destinataria l’accolse con entusiasmo, i suoi figli erano già grandicelli e aver per le mani tutte le mattine un nipotino da trasportare in filobus e insegnargli i primi rudimenti del sapere, le sembrò appagante. Si, la destinataria della proposta di un anno in più era mia zia Luisa, maestra con specializzazione per le classi differenziali, che insegnava in una lontana scuola elementare periferica a Città Giardino. In una classe differenziale, appunto.

Sembrava corretto alla scuola di quei tempi – siamo nel “47- che da una parte ci fossero i bambini handicappati e da un’altra i bambini normali. Con ciò, gli ideatori della separazione raggiungevano un duplice risultato: fornivano insegnanti specializzati ai disabili e non disturbavano il processo educativo degli abili.

Due o tre dettagli non tornavano nella pratica attuazione di quest’idea, ma si sa, nessuna apartheid è perfetta!

Mia zia Luisa era, però, rassicurante. Era la sorella di mio padre, le somigliava nel volto, portava dentro di sé una grande pena per il marito morto giovane ed era coraggiosa con i suoi due figli e con quella classe differente da tutte le altre della scuola.

Eppoi cucinava benissimo! Rimanevo incantato quando lei era in cucina e ogni tanto ci proponeva il suo capolavoro: i tortellini. Chi non ha mai visto fare in casa i tortellini e si è limitato a comprarli al supermercato dentro una vaschetta di plastica ha perso il gusto e il significato di un’opera d’arte culinaria.

Zia Luisa stendeva la pasta sottile su una spianatora di legno infarinata, ad intervalli regolari vi poggiava grumi di trito di carni macinate: vitello, manzo, tacchino e mortadella. Poi con un bicchiere di cognac rovesciato tagliava le mezzelune di pasta con la carne sopra. Un semplice movimento del polso che imprimeva al bicchiere la rotazione giusta.

A quel punto le dita dovevano essere agili e veloci come solo le dita di una cuoca sanno essere: dovevano ricoprire la carne con la pasta e inanellare i bordi della mezzaluna a chiusura del fagottello.

Mentre guardavo rapito potevo rubare e gustare la pasta cruda, la carne cruda e sentire il calore di una cucina familiare. Meglio se di una famiglia composita, intenta a leccarsi qualche ferita di piccole storie personali e di grandi storie del dopoguerra.

La mattina prendevamo il filobus, io e zia Luisa, uscivamo presto e facevamo un lungo viaggio per arrivare a quella scuola di periferia in tempo al suono della campanella.

E poi in classe, al primo banco. Perché proprio lì? Perché al primo banco c’era seduto il primo della classe.

Erano tutti più grandi di me, naturalmente, e probabilmente i seienni erano una minoranza dato che la maggior parte erano lungo-ripetenti.

Non posso dire che mi sentivo a disagio, in mezzo a loro, dopotutto ero il nipote della maestra che dalla cattedra e dalla lavagna insegnava delle cose bellissime, come aste, cerchietti, numeri...mentre tutta la classe, rigorosamente maschile, faceva scricchiolare i pennini sulle pagine di neri quaderni a righe e a quadretti.

Io guardavo con ammirazione il mio compagno di banco: come si destreggiava bene con la penna, dopo aver intinto il pennino nel calamaio, i suoi segni erano chiari e sicuri e appena tracciati asciugava il foglio con la carta assorbente. Sarei mai riuscito a raggiungere quel livello?

La classe era ordinatamente turbolenta, nel senso che ognuno di quei bambini aveva una sua rivendicazione personale nei confronti della maestra o del compagno di banco, ma tutto avveniva secondo uno spartito che zia Luisa negli anni, evidentemente, aveva saputo mettere a punto.

La mattina passava lentamente in mezzo a quell’orchestra di suonatori strampalati di cui anch’io oramai, settimana dopo settimana, facevo parte.

Vicino a me, il primo violino procedeva con sicurezza e sul quaderno a righe larghe le lettere, come note, avevano un percorso ondeggiante. Mi sforzavo anch’io, ma certo non ero così bravo.

Poi ogni tanto echeggiava una dissonanza che la maestra cercava subito di correggere con un cenno.

D’altro canto anche nella metafora dell’orchestra ci sono momenti, prima della sinfonia, in cui gli orchestrali provano i loro strumenti, e non ti rendi mai conto come di lì a poco quel caos di suoni possa diventare un’armonia.

Certo, dopo un po’ che ci avevo fatto l’orecchio, cominciai a notare che in quella classe le dissonanze erano un po’ troppe e provenivano da diversi orchestrali. Ne ricordo una tra le tante: a metà della fila centrale c’erano due fratelli ripetenti che se ne stavano abbastanza calmi e “composti”, come si diceva allora, per quasi tutta la mattina. La compostezza all’epoca era data dall’abbigliamento e dai modi.

La tenuta era un grembiule blu, sufficientemente pulito, e un colletto con un fiocco bianco. Sulle maniche del grembiule blu si potevano anche pulire i pennini dato che anche l’inchiostro era rigorosamente blu.

L’altro elemento della compostezza, era dato dalla posizione delle mani dell’alunno.

Esse o dovevano essere poggiate sul banco per scrivere e sfogliare libri e quaderni o dovevano essere alzate per azzardare una richiesta e fornire una risposta, oppure dovevano essere collocate dietro la schiena in una posizione di riposo. Un po’ come i militari quando non sono sugli attenti.

Dopo una mattinata di compostezza, però, i due fratelli della fila di mezzo cominciavano ad agitarsi per attrarre l'attenzione di zia Luisa, che, condiscendente, rivolgeva loro lo sguardo.

A quel punto i due si alzavano e lanciavano il loro acuto “A sora maè, a noi due sorelle non ce interroghi mai?!”

Effettivamente quel mio, non primo anno di scuola, con quella specie di integrazione a rovescio, mi è certamente rimasto più impresso del successivo primo vero anno di scuola. Nel filobus di ritorno zia Luisa cercava di farmi un po’ di lezione, ma quello che veramente mi interessava erano loro, quei miei compagni più grandi e più distanti, più astratti, ma non incomprensibili…

Come mai la realtà continuava a presentarsi davanti a me come su un palcoscenico?

Sembrava che un pensiero costante mi accompagnasse in quei primi anni di vita, che, grosso modo, nella mia testa doveva essere formulato così: tutto ciò che è reale, è recitato?! O ero piuttosto io che preferivo che fosse così, mentre quelle realtà non avevano nessuna voglia di palcoscenico.

Comunque stessero le cose gli attori e i musicanti che guardavo e ascoltavo rapito mi trascinavano sempre con loro e cercavo di non rimanermene a fare solo lo spettatore... Parafrasando un verso di Ezra Pound nei Pisan Cantos direi che in quella epifania prescolare, aver recitato in luogo di non aver recitato, questo non è vanità.

A meno che io non sia partito, in quel tempo, col piede sbagliato e abbia poi fatto un po’ di confusione con gli altri tempi della vita.

Per ogni cosa c’è un tempo fissato, si, un tempo per ogni faccenda sotto i cieli recita l’Ecclesiate.

E il risultato di questa confusione non sia stato esso stesso vanità e un correr dietro al vento.

Mi ero imposto di finire questo mio racconto sui giochi della memoria, prima che iniziasse la scuola.

Le ragioni di questa scelta non sono forti, però ho, fin da allora, percepito che con la scuola, con la prima elementare, sarebbe iniziata una stagione diversa, molto meno individuale e familiare e molto più “sociale”. Quindi tutta un’altra storia! Ma lasciamo, per poche pagine, ricadere lo yo yo del tempo per qualche tratto di spago. Tanto ritornerà su da solo.

La prima elementare a Roma nel successivo e fatidico 1948 nella scuola “Giuseppe Mazzini” se non recideva del tutto il cordone ombelicale con le personali immagini della fantasia che ti eri creato, certo suggellava il momento dell’uscita dal bozzolo e dell’incontro, quotidianamente regolato, con l’altro da sé.

La passerella tra le due situazioni esistenziali era, naturalmente, data già dall’ingresso della scuola, preceduto da un grande cortile scarsamente alberato.

Alla fine del cortile, una grande scalinata introduceva al portone principale, dove si ergeva la figura maestosa per eccellenza, quella che, se non aveva nessun potere sulla tua educazione, aveva un potere autocratico sulla tua stessa presenza in quella nuova realtà. Sto parlando del bidello, capo di tutti i bidelli della Mazzini, Coltellacci: una figura imponente e teatrale! Lo aiutava, nell’interpretazione quotidiana del suo personaggio, una zoppìa marcata e sinistra...più tardi tutta la mia generazione con Gambadilegno e Long John Silver avrebbe abbinato il personaggio inceppato da un arto inferiore artificiale con la rappresentazione della canaglia...che ha le sue ragioni per essere tale.

Il povero Coltellacci, comunque, non era certamente una canaglia, però aveva il volto cupo e severo e le sopracciglia folte, la voce stentorea e...si, la gamba sinistra di cui si favoleggiava o, per dirla con termine d’uso in età più adolescenziale, si cazzeggiava abbondantemente. Una capacità, quest’ultima, o un talento - forse, addirittura una vera e propria virtù - che è stata sempre sottovalutata dalla nostra società...tranne che in questi ultimi anni.

Naturalmente la maggior parte di noi diceva che era di legno, ma di legno come? Tutta la gamba, solo il piede, dal ginocchio in giù come un corsaro?

E anche come l’aveva persa era oggetto di cazzeggiante speculazione, se non di vera e propria indagine. Certo giocava a favore del personaggio e delle possibili storie quel suo granghignolesco cognome. Forse per me fu la conferma, dopo tutti i nomi sentiti nella prima infanzia dell’importanza dell’onomastica nel contesto di una storia, ossia quel particolare intuito che deve guidare un narratore nella scelta dei nomi. Una scelta sbagliata rischia, addirittura, di delineare in maniera difettosa il carattere del personaggio e di confonderne la maschera, con la conseguenza di collocarlo a disagio nel contesto narrativo.

Nei cinque anni in cui rimasi alla Mazzini con i miei compagni, sotto l’inflessibile disciplina educativa della mia maestra, signorina Bonsignore, nessuno riuscì a scoprire il segreto di Coltellacci. Che in un’altra vita - quella, appunto, della nostra bambinesca fantasia e dei nostri demenziali scherzi - sulla tolda del suo vascello fantasma aveva lungamente duellato con Henry Morgan e Francis Drake.

E forse perfino con l’impareggiabile Bartholomew Roberts, uomo di buone maniere e di buon gusto, di cui si ricordano ancora oggi le parole dettate da acute riflessioni ed esperienze “ Nei lavori onesti esistono di solito paghe basse e dure fatiche; nella pirateria, abbondanza, sazietà, libertà e potere. E chi non preferirebbe questa seconda alternativa, visto che il rischio che si corre, nel peggiore dei casi, è quello di ricevere un paio di sguardi malevoli e ostili al momento dell’impiccagione?”

Duelli appassionanti che presto avremmo cercato d’imitare armati di righelli, e che erano costati al buon Coltellacci la perdita dello stinco e del piede sinistro, rimasti incastrati tra le assi sconnesse del ponte del suo brigantino battente bandiera nera con teschio e ossa incrociate.

Imitammo i duelli senza porgere l’orecchio alle considerazioni di Bartholomew Roberts che, scoprimmo più tardi, leggendo le storie dei pirati. Come anche scoprimmo che, applicando gli stessi principi, Morgan e Drake erano diventati baronetti.

Di quei lontani duelli, a Coltellacci erano rimaste due impronte: il piglio autorevole, incorniciato dall’austero portone in cima alle scale, e il colpo sordo, che s’udiva nei corridoi della scuola quando, claudicante, li percorreva da cima a fondo.

Quello che accadde in quei cinque anni in quella scuola, l’ho detto, non può essere oggetto di questo scritto.

Voglio solo dire che l’impressione successiva, che io e i miei amici ne ricavammo è stata quella di essere stati “forgiati”, come se la classe fosse stata una fucina di metalli. Ad azionare il mantice, infatti, c’era una donna minuta e magra, con i capelli grigi raccolti in una crocchia sulla nuca: l’amata-temuta signorina, maestra Bonsignore.

Quando si frequenta un corso per marines dai 6 ai 10 anni compiuti, poi si può affrontare il resto degli studi e della vita in generale con relativa facilità: è quello che accadde ai miei diletti amici Pierpaolo e Gianfranco . Da loro non mi hanno separato gli eventi anomali della vita adulta...forse anche in nome di quella solidale amicizia che s’instaura tra i prigionieri delle mura scolastiche.

La Bonsignore era inflessibile con tutti ma soprattutto con Gianfranco al quale addebitava alcune incolpevoli imperfezioni nei comportamenti della classe. Alla sua logica notazione che quotidianamente risuonava “ Ma che c’entro io?” la maestra guardando tutti noi, lui escluso, c’impartiva una prematura, quanto amara lezione di responsabilità collettiva , chiamandolo per cognome “C’entra Viglietta , c’entra…”

Sembrava che davanti agli occhi di quei bambinetti col grembiule blu e il fiocco bianco apparisse sulla lavagna ancora qualche sgradevole e residuo segno dei tempi appena trascorsi.

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