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Il riordino delle superiori e il sistema di istruzione e formazione in Italia
Dopo molte false partenze inizia, con il 1° Settembre 2010, una nuova stagione di riordino delle scuole secondarie superiori in Italia, a partire dalle prime classi.
L’angolatura da cui muovono i regolamenti è stata dettata, com’è noto, dalla legge finanziaria del 2008 che ha sentito anche l’esigenza di collegare, nell’art. 64, la ridefinizione dei curricoli vigenti, con particolare riferimento a quelli degli istituti tecnici e professionali, alla razionalizzazione e all’accorpamento delle classi di concorso.
Il collegamento è ovviamente stringente, perché un sensibile contenimento dei quadri orari o settimanali dei vari insegnamenti – auspicato in diversa misura anche dai precedenti interventi riformatori – determina una diminuzione della consistenza complessiva degli organici del personale della scuola. A questo va aggiunto che l’intervento sulle classi di concorso può essere operato solo nella fascia della secondaria, dove sono ancora numerose nell’ordine tecnico e professionale. L’esigenza di rendere maggiormente flessibili l’impiego delle risorse umane si è manifestata già nel corso degli anni novanta – la prima indicazione normativa è contenuta nel decreto legislativo n. 35 del 1993 – e segnò una netta inversione di tendenza rispetto al proliferare delle classi di concorso dei decenni precedenti e alla conseguente rigidità nell’organizzazione della prestazione professionale dei docenti.
Certo l’elemento imprescindibile di ogni intervento riformatore nella scuola e no è la sua sostenibilità finanziaria e la necessità di un più flessibile impiego delle risorse umane, ma quest’ultimo decennio della scuola italiana può essere rappresentato da un grafico a montagne russe sul tema della sostenibilità finanziaria delle varie azioni amministrative ed educative.
Peraltro proprio sul fronte delle risorse umane è stato realizzato un contenimento dei quadri organici del personale della scuola, perseguito in tutte le legislature di questo periodo, a fronte di un assorbimento del precariato scolastico molto lontano da una situazione ottimale.
Non era scontato, anche con la diminuzione della popolazione scolastica: non era scontato perché proprio la parcellizzazione delle classi di concorso e la proliferazione di percorsi sperimentali – i due mali che i regolamenti sulla secondaria superiore intendono curare – potevano ostacolare fortemente il contenimento della spesa, lasciando pressoché inalterata la consistenza degli organici.
In realtà la scuola italiana, nel periodo di flessione delle iscrizioni, aveva già manovrato su tre leve per raggiungere un livello accettabile di sostenibilità finanziaria del sistema di istruzione:
  1. il ridimensionamento della rete scolastica, le istituzioni sono passate, tra il 1999 e il 2000, da più di 14.000 unità a poco più di 10.000
  2. il progressivo aumento degli alunni per classe
  3. il contenimento consequenziale degli organici.
Queste azioni hanno consentito di dare le risposte possibili agli altri due grandi e connessi problemi: il reclutamento (gli ultimi concorsi a cattedra sono appunto quelli del 2000) e il precariato (l’ultima significativa quota di contratti a tempo indeterminato è quella del 2007).

Ora il riordino della secondaria superiore interviene in una fase di incremento della popolazione scolastica, arrivata a toccare la quota record di 2.549.000 studenti, e certamente dovrà dare una risposta anche in termini di reclutamento di personale scolastico e di progressivo assorbimento del precariato strutturale. In termini aziendalistici suonerebbe come un paradosso la predisposizione di un piano di esuberi in una fase di incremento della domanda!
Infatti quando ci domandiamo quali saranno le conseguenze di una così incisiva contrazione dell’organico, accompagnata da una limitata quota di immissioni in ruolo (come si chiamavano una volta), dobbiamo capire che l’effetto si traduce sostanzialmente in un rallentamento e in una limitazione del reclutamento del personale docente e ATA.
Le espressioni miglior utilizzo o razionalizzazione nell’utilizzo delle risorse umane sono attinenti per lo più al personale con contratto a tempo indeterminato che, in occasione di innovazioni didattiche ed educative, vedono il loro status modificato e/o ampliato in tema di formazione, di mobilità professionale o di mobilità territoriale, tutte azioni, peraltro, regolate da norme contrattuali con spiccate caratteristiche garantiste.
L’impatto sul precariato non può che essere, invece, quello di minor utilizzo, di rallentamento del turn over e del mantenimento di una percentuale elevata di contratti a tempo determinato sul totale del personale scolastico: mediamente il 16% pari a 131.000 docenti e il 32% pari a 78.000 tra gli ATA. In realtà le predette percentuali dei precari nella scuola salgono ancora di più se si aggiunge al conteggio anche il numero delle supplenze brevi e saltuarie.
Percentuali e numeri che rischiano di permanere – se più studenti continua a voler dire solo più supplenti – come un’anomalia fisiologica, un ossimoro della scuola italiana, il cui disagio va affrontato con consapevole lungimiranza.
Collegare la riforma della secondaria superiore a una razionalizzazione della spesa è senz’altro opportuno e necessario, ma la sottovalutazione delle ricadute occupazionali nella concretezza del quadro che si è andato delineando in quest’ultimo decennio, rischia di non dotare la riforma stessa delle necessarie risorse umane.

L’altro elemento di forte impatto con la riforma della secondaria superiore è la tardiva e complessa attuazione delle norme sulla scuola contenute nella legge costituzionale n. 3 del 2001 di modifica al Titolo V.
Una visione per così dire settoriale del ciclo secondario, qual’è quella pur legittima che discende dall’art. 64, ha il rischio di non dare la giusta rilevanza ai raccordi tra istruzione tecnica e istruzione professionale.
In tutti e due gli ordini i relativi percorsi sono diventati quinquennali e, nel corso degli anni, hanno perfino realizzato talune significative coincidenze. Ne è testimonianza l’uso dello strumento delle passerelle da un percorso all’altro. Raccordi che, comunque, non interferiscono sulla differenziazione dei due impianti e della diversa area di specializzazione: tecnologie-metodologie per i tecnici, settori-filiere per i professionali.
Ma soprattutto manca, a tutt’oggi, un quadro ordinamentale certo dove siano ridisegnati i rapporti tra istruzione professionale e formazione professionale che la norma costituzionale ha posto sotto la potestà esclusiva delle Regioni proprio nell’intento di ricomporre, in capo ad un’unica autorità, i due segmenti che la vecchia norma costituzionale aveva separato.
Questo riordino (anche qui il termine sarebbe appropriato) nell’intento del legislatore costituzionale è diretto a realizzare un’importante integrazione di sistemi tra politiche educative e politiche formative nelle aree professionali. Integrazione di sistemi che certamente si avvarrebbe di notevoli sinergie finanziarie al Nord, per la maggiore prosperità dei conti, come al Sud, per i finanziamenti europei.
Il settore professionale è quello che maggiormente, con l’istruzione tecnica, determina il peso economico della dispersione scolastica in Italia ed è una delle due grandi priorità di intervento normativo, educativo ed economico da realizzare.
L’altra, come è stata messa in luce da molti, e il rilancio culturale dell’istruzione tecnica che riconsideri le centinaia di percorsi ordinamentali e sperimentali in una visione più moderna e sistemica con il passaggio dalla scuola delle discipline alla scuola delle competenze.
Il ritardo, di questo primo decennio del secolo, nell’affrontare e portare a compimento riforme che potevano essere condivise, ha pesato gravemente nella relazione tra istruzione e disuguaglianza sociale. E’ come se l’aumento della scolarità non avesse spinto significativamente la mobilità sociale: le analisi dell’Istat sono lì a dimostrare come il muro della disparità socio-educativa rappresenti un costo non solo sociale ma anche economico elevato. I precetti costituzionali degli artt. 3 e 34 sulla rimozione degli ostacoli e sui capaci e meritevoli indicavano, invece, proprio l’obiettivo dell’abbattimento di quel muro. Per questo la rotta va orientata oltre che sul contenimento della spesa e sul riordino delle tante asimmetrie, su un disegno complessivo più coraggioso e lungimirante che sappia utilizzare gli anni scolastici dell’attuale legislatura come un periodo transitorio verso un nuovo sistema nazionale di istruzione.
Le premesse non mancano: l’autonomia delle scuole, in dieci anni, si è consolidata e attende di vivere una stagione più adulta, la proliferazione delle sperimentazioni appartiene ormai agli anni ottanta e novanta, l’attuazione del dettato costituzionale sul c.d. federalismo scolastico non è più rinviabile, la stessa composizione della popolazione scolastica è profondamente mutata, l’economia richiede talenti, flessibilità e competenze. Dunque non è più il tempo di un quadro ordinamentale in cui i vari ordini si muovano esclusivamente con logiche proprie, aggiungendo un’altra fila di mattoni al muro della separazione.
Le innovazioni attuate in questo decennio - autonomia, elevazione dell’obbligo, riforma ciclo primario, alternanza scuola-lavoro - erano state tutte preparate dalle scuole negli anni novanta, per questo hanno potuto e possono funzionare. E' ora il tempo di preparare, attraverso i nuovi strumenti regolamentari, in un periodo appunto di transizione, una nuova architettura più elastica, costruita con materiali meno pesanti e che sia dislocata nel territorio con una definizione reale e non formale della governance. Applicando alla formazione il modello internet, nel senso dell'evoluzione dal basso: un sistema di produzione dei fattori educativi diffuso, capillare, decentrato e flessibile, con la considerazione che le risorse professionali espresse dai docenti sono un investimento sociale fondamentale che deve avere un costo sostenibile per il bilancio dello Stato ma anche per la vita professionale del personale della scuola. E con l’ulteriore considerazione che i tredici anni di scuola (spesso preceduti dai tre della scuola d’infanzia) sono un periodo troppo lungo e diluito per le sfide del XXI Secolo.
Che scenario educativo avremmo avuto in questo decennio se sulle logiche abrogative e ricostruttive avessero prevalso logiche autenticamente riformatrici?

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