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Ricordate Rosebud?
Prima di rispondere no, srotolate il filo della memoria per tutta la sua lunghezza e arrivate a quando avevate uno o due anni… massimo quattro, direi.
E’ allora che avete incontrato Rosebud.
E’ allora, durante la guerra, che io l’ho incontrato. Intendiamoci ognuno nell’infanzia ha conosciuto il suo, diverso da quello di tutti gli altri. Come la personalità o il carattere.
Nonostante questo, ci accomuna il fatto che quell’incontro rimane sepolto nella memoria di ciascuno di noi per lunghi anni, anche per tutta la vita.
Come accade al personaggio interpretato dal grande Orson Welles in Quarto potere (considerato uno dei dieci film più importanti della storia del cinema): Charles Foster Kane, il magnate della stampa, che nel finale del film e della vita ricorda lo slittino della sua infanzia, con la scritta Rosebud.
Un frammento di memoria che racchiude gran parte di noi.
Come se da una singola tessera del mosaico si potesse capire, per estensione, il disegno complessivo.
Ma non è proprio così, e lo sappiamo bene… eppure Rosebud, quel piccolo frammento, ci è sembrato, a tratti, avere un potere costitutivo. Come fosse la particella più intima del nostro io, il mattoncino iniziale su cui si è costruita la nostra personalità. Anche se poi è accaduto che la costruzione successiva non ha rispettato o non ha potuto rispettare quell’impostazione iniziale.
La nostra fisionomia cambia e cambiano i nostri interessi, nel film Orson Welles allude a uno degli uomini, all’epoca, più potenti d’America, William Randolph Hearst. E allora perché il ricordo di Rosebud dovrebbe rimanere significativo? In realtà questo è potuto avvenire anche perché abbiamo saputo dare voce a quel ricordo, perché lo abbiamo raccontato a qualcun altro.
Certo ci possono essere ragioni psicologicamente più profonde che ci legano a quella particella dimenticata… comunque è solo con la necessità di raccontarla che ne capiremo l’importanza. Ancora di più: la sopravvivenza!

Ma la narrazione è sempre lacunosa, la trama esile e incerta, è passato troppo tempo, la foto è sfocata e ingiallita.
Rischiamo di confondere il ricordo con l’invenzione del ricordo, ma non è poi così grave. Stiamo manipolando la memoria con la narrazione ed è inevitabile che ne correggiamo alcune parti e ne omettiamo altre. L’importante è catturare il senso di quel ricordo dentro una storia.
Uno slittino in una mattinata felice sulla neve è, pur sempre, una storia da bambini, in cui gli oggetti e le persone rubano spazio alla trama.

Che è semplice, schematica: il piccoletto ha preso lo slittino, nonostante il divieto dei genitori perché la strada è ghiacciata, e alla discesa spensierata unisce il gusto della disobbedienza. Oppure la nevicata è stata abbondante e lui ha scoperto che anche per scivolare sullo slittino con la neve fresca ci vuole coraggio. E’ stato bravo, felice in quella lontana mattinata, leggero come un fiocco di neve!
Gli oggetti e le persone, dicevo, sono preponderanti nella storia, ma spesso non con i loro veri nomi. Perché li abbiamo conosciuti con i nomi che abbiamo inventato noi da bambini.
Proprio come in una storia, anche in quelle semplici commediole della vita, i nomi dei personaggi sono frutto di inconsapevoli incursioni nel territorio dell’onomastica. La capacità, cioè, di dare un nome che immediatamente identifichi le caratteristiche fisiche e, addirittura, psicologiche di un determinato personaggio.
Nell’invenzione pura dell’età infantile questa libertà anagrafica riguarda non solo le persone, ma tutto il mondo circostante: gli oggetti, i giocattoli, il cibo.
E’ un atto primigenio che aiuta a conoscere la realtà e a decifrarla attraverso un bozzolo narrativo.
Per questo Rosebud si fissa nella memoria, ha un posto in prima fila nelle interminabili sequenze dei nostri ricordi, per questo l’abbiamo scelto, a suo tempo, tra una moltitudine di altri oggetti, di altre successive occasioni.
Un bozzolo narrativo legato ad un’immagine destinata ad evocare quel piccolo racconto dal forte impatto emotivo. Rosebud è destinata, soprattutto, a diventare, con il trascorrere degli anni, un’immagine carica di valore metaforico, l’immagine del cucciolo d’uomo che eravamo, la metafora più personale che si possa immaginare.

Nel pianeta dell’infanzia accanto ai territori dell’autonarrazione ci sono quelli del racconto orale in cui una voce, più spesso femminile, ci fa vedere i personaggi e gli sviluppi della storia.
Piccole storie destinate a contaminare, a loro volta, e ad arricchire le nostre invenzioni.
“Far vedere” non è una necessità assoluta della narrazione, ma è certamente una caratteristica di celebrata potenza seduttiva, capace di condurre l’ascoltatore in contesti talvolta più ampi e perfino diversi da quelli in cui il narratore avrebbe voluto confinarlo. Poco alla volta, con la crescita, è possibile e anzi auspicabile che s’instauri una sorta di coproduzione di senso e di immagini tra chi parla e chi ascolta. Il sistema di immagini prevale, perfino sullo sviluppo della narrazione, sulla trama, e pone il suo baricentro sui personaggi della storia che diventano le immagini letterarie più rilevanti.
Ma c’è, generalmente, una piccola porta che c’introduce in maniera obliqua verso questo sistema ed è rappresentata dallo scenario metaforico. E’, infatti, con la metafora che il narratore riesce nello stesso tempo a creare un particolare impatto emotivo e a proporre una rappresentazione del contesto descritto.

Accade anche nell’autonarrazione?
Direi di sì, data la contaminazione con le altre storie ascoltate – ricordiamoci che una storia nasce spesso da un’altra storia – e dall’ancor più potente contaminazione che si produce tra realtà e fantasia in quella stagione della vita.
Ecco allora che lo slittino con inciso un nome può essere la prima immagine metaforica conosciuta. Rimasta incisa nella memoria.
Letteralmente la metafora estetica e visiva – in misura minore la metafora linguistica – tende a dare una nuova riproduzione (si direbbe una nuova identificazione) dell’oggetto, dell’evento, della scena, come in uno specchio. Già, proprio come in uno specchio perché, in primo luogo, qualunque immagine uno specchio riproduca – o meglio, restituisca – assomiglia all’originale, alle sembianze dell’originale, se si tratta di una persona, o ai contorni della scena specchiata.
Se può sembrare eccessivo parlare della metafora come il passaggio a una dimensione diversa da quella reale, ma che, comunque, la rispecchia, pensiamo almeno alla diversa atmosfera che una metafora può evocare nel corso della narrazione.
La metafora è uno specchio, che il narratore fa comparire improvvisamente, luminosamente e nel riflettere l’oggetto, la frase o l’intero contesto ci fornisce una lettura anzi una visione particolare, diversa e ci catapulta nella nuova dimensione, talvolta di sogno, che lo scenario metaforico ha aperto. E il narratore per esercitare tutto il suo fascino, per essere seducente, non può fare a meno di questo specchio.
Un solo autore è riuscito a far coincidere se non a sovrapporre sequenze metaforiche con sequenze oniriche, ed è sempre lì, appostato dietro uno specchio: Lewis Carroll.

Immagino che, a questo punto, debba concludere raccontando il mio Rosebud… in bianco e nero, dati i tempi.
Tutto ebbe inizio, infatti, nei primi tre anni della mia vita, a Rieti, durante l'ultima guerra.
Già, perché mio padre, da buon romano di antica discendenza, aveva rapito una giovane e bella sabina, portandosela a Roma, nel quartiere Trieste. Ottima scelta, nel solco della tradizione: lei aveva un portamento elegante, un cervello affilato e sapeva tirare di scherma. Ma quando fu il momento di partorire, mia madre pensò bene di tornare nella sua città d’origine, perché il nascituro fosse fatto nella casa dei suoi genitori.
Fatto in casa! Come le tagliatelle o i bignè di S.Giuseppe, forse in onore alla famiglia di mio nonno materno che veniva da una stirpe di fornai. La cosa lì per lì non posso dire che mi disturbò, ma certo disturbò moltissimo mia madre, che rimase immobilizzata per tre anni a seguito di una terribile flebite, conseguenza del parto fatto in casa.
E a causa di questa malattia, non fui riportato a Roma appena sfornato come era nei programmi, ma mi lasciarono svezzare in casa dei nonni e degli zii, dove mia madre giaceva nel suo letto di dolore.
Quei primissimi anni di vita e ultimissimi di guerra li ho dunque vissuti in una città piccola, ma in una casa con le stanze grandi, se si esclude qualche breve incursione a Roma, giusto per prendere contatto con i luoghi che poi avrebbero segnato la mia vita.
Sia l’appartamento dei nonni che quello dello zio Umberto, il commerciante all’ingrosso e viveur al minuto, avevano terrazze e ballatoi, grandi camini e corridoi lunghissimi; scoprire le stanze e le loro funzioni era, per un mammifero a quattro zampe, la prima esplorazione del mondo in cui era capitato.
Le terrazze, con le piante di limone, sui tetti dell’antico borgo medievale di Rieti, erano una fusione perfetta di luce, natura e arte, un coktail benefico, buono quanto il latte della balia. Ma una stanza in particolare mi è tornata più volte alla mente: quella dove dormivo nella casa di zio Umberto e zia Renata - questo era il nome della sua felicemente disperata consorte - quando era necessario decentrarmi.
Era un camerone enorme, abbastanza distante dalla profumata camera da letto degli zii e dalla sontuosa camera da pranzo; ci si arrivava percorrendo stretti corridoi... negli anni era servita come una camera di sgombro, un posto dove si erano ammassati mobili e biciclette, vasi e materassi, generazioni di oggetti provenienti da case e da essere umani precedenti, mischiati con oggetti dismessi del commercio all’ingrosso di caffè e dolciumi.
La notte, il buio di quella stanza non invitava alla quiete del sonno.
Era un buio meravigliosamente inquietante, in cui gli oggetti scricchiolavano e ansimavano, tutt’intorno a un piccoletto che ascoltava curioso e non riusciva a prendere sonno.
Nelle parti felici del mondo, la sera, quando non ci sono guerre, quando le madri possono, è l’ora delle filastrocche, delle favole, del bagliore di brace nel camino: un’ora fondamentale per far crescere persone pacifiche e tolleranti. Anche se non ci sono più camini nelle città.
Un’ora dove s’impara che una voce narrante può dondolare il vascello della fantasia fino a farti addormentare.
Come mi mancava quella femminile voce narrante, tutte le molte volte che nonna Ghitarella (all'anagrafe Margherita) doveva accudire a ben altre faccende e alla sua povera figlia immobilizzata.
Così decisi - a due anni, a tre anni ? - di integrarla, con la mia.
In quello stanzone - porto di terra dove tutte le sagome gettavano ombre di forme svariate - io mi raccontavo le storie per addormentarmi, mi canticchiavo una nenia con parole sempre diverse e cercavo di godermi la paura di tutte quelle presenze. La necessità dell'autonarrazione!
Per fortuna, tanto per stabilire l’equilibrio narrativo, sarebbe ritornata mia nonna la sera dopo o quella dopo ancora con le prime storie de La Scala d’oro.

Poi arrivò la scoperta!
Tra una catasta e l’altra di oggetti misteriosi, c’erano, incastrati tra loro, alcuni giocattoli.
Una scoperta straordinaria, quei giocattoli di legno e di pezza che gli anni trascorsi avevano messo nelle mani di altri piccoletti!
Il giorno li guardavo e li toccavo con una spropositata gioia e meraviglia. La notte, anche se dal mio lettino non li potevo vedere, sapevo che erano lì e cresceva in me un rassicurante interesse verso quelle fascinose presenze.
Grazie a loro, anche le mie storielline e le nenie per prendere sonno migliorarono il loro intreccio e capii che con una spada ed un cerchio si poteva lottare contro quelle paurose sagome fino a rinchiuderle nella magia di un embrione di racconto.
Alla fine mi sembrava che quei giocattoli, di notte, emanassero una debole luce verdolina, una fosforescenza della vita precedente, ed era come se i giocattoli giocassero tra loro, ma nello stesso tempo giocassero per me...
Anzi, con me, dato che il gioco è certo una importante forma primitiva di comunicazione e di espressione.
Ma nella grande casa degli zii di Rieti la notte non erano solo i giocattoli a rimanere svegli. Nel camerone da pranzo, arredato con mobili di noce scuro, in tutt’altra ala della casa, dopo cena e fino a tardi,anche gli adulti giocavano. A bridge.
I reatini avrebbero conquistato una notorietà internazionale negli anni’50 come straordinari giocatori di bridge, ma è con l’avvicinarsi della fine della guerra che gli incontri e gli scontri erano diventati più interessanti.
Gli alleati che risalivano lentamente verso Nord si trovarono tra la fine di giugno e i primi di luglio del ’44 a liberare la Sabina e la traccia del passaggio privilegiò soprattutto le truppe inglesi.
Ci fu un altro ratto delle sabine? Nella mia famiglia non se ne è mai fatto cenno e quindi non sono in grado di rispondere a questo quesito della Storia, che vede, comunque le donne sabine ricordate sempre come secolare oggetto di desiderio.
Forse prevalse l’atteggiamento “niente sesso, siamo inglesi”, certo è che gli ufficiali inglesi venivano quasi ogni sera nella grande casa degli zii a giocare a bridge.
Zio Umberto, ai loro occhi, non solo era di sicura fede antifascista - aveva tirato un sasso, rompendo un vetro, contro le finestre del palazzo della Gioventù Italiana del Littorio - ma, da buon reatino, era un notevole giocatore di bridge e zia Renata sapeva come ricevere gli ospiti.

Gli echi delle serate anglo-reatine arrivavano attutite fino allo stanzone dove cercavo di prendere sonno.
Le luci, il tappeto verde, le carte con i re e le regine, quegli uomini in divisa, eleganti, magri, biondi e sorridenti ricreavano la stessa attrattiva rappresentata da una comitiva in un giorno di festa.
Traversavo i meandri scuri e silenziosi della casa zampettando e alla fine entravo in quell’altro mondo fatto di forme luminose, di carte da gioco, di fanti e parenti, in un equilibrio perfetto... in cui volevo inserirmi.
L’angoscia del buio si dissolveva in un attimo e venivo accolto come una piccola epifania.

Quegli ufficiali avevano lasciato sulla loro isola una famiglia, donne e bambini che avevano patito i bombardamenti,e vedere un pupetto biondo che si avvicinava traballante e rimbalzante doveva pur toccare qualche corda sensibile.
Sì, anche lo stesso colore di capelli ha giocato un ruolo nella vicenda, dato che io, a tre anni, ero un quasi albino che si avviava a diventare biondo; oggi mi rallegra il pensiero che alla fine della parabola temporale sono tornato ad avere lo stesso colore di capelli che avevo al termine della seconda guerra mondiale.
Avevo un’altra carta per vincere su quel tavolo verde: una faccia da Churchill!
Quando gli presentarono un bambinello che gli somigliava, Churchill pare abbia detto “Of course, ogni neonato mi somiglia”.
E aveva ragione, sta di fatto che la mia faccia somigliava più a quella di un bambino inglese, così come lo si vede sui tabloid, che a quello di un bambino romano-sabino.
Uno di quegli ufficiali, carezzandomi le guance paffute, mi battezzò “Peach!”.
Zio Umberto non capì e io nemmeno naturalmente.
Ma dare un nome alle persone e alle cose mi parve una cosa straordinaria. Ecco cosa mancava alle mie storielle notturne!
Anche i giocattoli dimenticati e accatastati nello stanzone erano privi di nome... fu così che una notte mi sembrò che la luce verdolina illuminasse soprattutto un pupazzo sghembo, strattonato da tante mani, un piccolo clown di pezza con cui non avevo ancora mai parlato.
Sul naso aveva una pallina rossa e la faccia era dipinta di gesso, i suoi occhi allegri e tristi sembravano confondersi con il mio sguardo curioso. “Come ti chiami?” devo aver pensato... e nella grande stanza esplose un nome, il suo nome: Macasseco!
Mi addormentai felice. Avevo inventato il nome del mio nuovo compagno di giochi, Macasseco.
Avevo inventato una parola che mi sembrava bellissima, che mi riempiva di gioia quando la pronunciavo e che era sufficientemente astratta per adattarsi al pupazzo e, perfino ad una persona in carne e ossa. Così, quando qualcosa o qualcuno colpiva la mia fantasia in erba, esplodevo chiamandolo: “Macasseco !”
I nostri giochi - solo quelli da bambini? - curvano, piegano, deformano la realtà, ma soprattutto la riducono a parodia: un’assoluta necessità in alcuni momenti della vita! Era come se il mio Rosebud, con una capriola da clown, mi avesse preso per mano per condurmi lungo quella piccola pista da circo su cui ero venuto al mondo.

Molti anni più tardi, a Roma, a Palazzo delle Esposizioni, vidi una mostra antologica delle opere di Alberto Savinio.
Percorrevo i larghi corridoi del palazzo tiepidamente affascinato da quei quadri che sembrava celebrassero le nozze tra la mitologia e il surrealismo quando si spalancò, davanti a me, una grande sala con un immenso quadro sulla parete di fronte.

C’era una fitta boscaglia scura, almeno così mi apparì, aggrovigliata e tenebrosa, ma da un angolo, al suo interno, s’irradiava un chiarore colorato, come avviene in un sogno.
Mi accostai alla parete e al quadro, attratto da quella luce, e vidi in mezzo a quei rami contorti e a quei cespugli un intrico di Oggetti nella foresta, una composizione variegata di archetipi di giocattoli?
Quella composizione illuminava lo spazio interno della foresta ed esercitò su di me lo stesso fascino che avevo provato da bambino, quando nello stanzone buio del primo piano di via Roma 37, a Rieti, avevo scovato Macasseco nascosto nell'ammasso dei giocattoli.
Ci si poteva anche addormentare tranquilli se nel buio della notte e nell’intricata foresta della vita i giochi erano svegli e pronti a renderci, a seconda dei momenti, più tristi e più felici!

Quando mia madre fu in grado di camminare lasciammo alle nostre spalle Rieti e quel piccolo circo con un pubblico così amabile, per venire a Roma. Il dopoguerra era iniziato, un grande teatro di ceneri fumanti e di speranze, con attori diversi e senza più Macasseco.
Anche se la mia mano non aveva alcuna intenzione di mollare, così repentinamente, l'aquilone di quei ricordi e la mano di Macasseco.
Tra le tante riflessioni che ho letto sull’infanzia, quella di Daniele Del Giudice mi ha colpito particolarmente:
“L’infanzia è anche una certa quota, - scrive in Staccando l’ombra da terra - un certo rapporto con la terra, una questione di dimensioni che non si avranno mai più, un punto di vista ad esaurimento, di cui, una volta perduto, si perde perfino la memoria.” Ma siamo così sicuri che in certi momenti della vita, quando l’ombra si proietta nuovamente sul nostro cammino, la memoria non ricompaia in altre forme, con altre sembianze?
E che giochi con il tempo esattamente come fa uno yo yo…che scende velocemente, e con la stessa forza si riarrotola e risale fino al nostro dito, riportandoci alla mente il nostro Rosebud.

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