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Shahrazad o la necessità del narrare
1. Incontriamo una donna, proprio all’inizio delle storie, una generatrice di tutte le storie, la figlia maggiore del visir, la cui sorte è segnata dalla follia del sultano che, per vendicarsi del torto subìto dalla sua sposa, uccide una fanciulla ogni notte. Da allora in poi salvare fanciulle in pericolo di vita è diventata una costante delle storie d’avventura e non solo. E’ la storia del sultano Shahriyàr che, tradito appunto dalla moglie, la uccide e decide di sterminare il genere femminile, una vergine sposa ogni notte, attraverso un rituale inesorabile nello scandire i momenti dell’amore a quelli della morte.
Allora Shahrazàd, che si è offerta come sposa al sanguinario sultano, ha un piano e raccomanda alla sorella minore Dunyazàd - Quando sarò dal re, io manderò a cercarti, verrai e dovrai dire “Sorella raccontaci una storia con cui passare la veglia...”
Il sultano concede questa possibilità - dopotutto non si vive di solo eros e tanatos, ma anche della loro rappresentazione - quando all’alba, improvvisamente, Shahrazàd si arresta senza aver finito la novella. Dunyazàd, che ai piedi del letto ha seguito la storia, esclama:
“Sorella, quanto è bello e straordinario il tuo racconto!” “Quello che avete sentito” insinuò la narratrice “non è niente in confronto di quello che mi propongo di rivelarvi domani notte…se sono ancora in vita e se il re mi concede una proroga per raccontarlo. La mia storia contiene infatti numerosi episodi ancora più belli e straordinari di quelli che vi ho fatto gustare.” Allora il re pensò: “Per Dio! Non la ucciderò finchè non avrò sentito la continuazione. Eccomi davvero obbligato a rinviare la sua condanna a domani.”
Ed è così, di storia in storia, che la bellissima narratrice salva se stessa e noi lettori con l’artificio della sospensione del racconto, che viene interrotto dall’avvento del giorno.
Dopo il tramonto la storia riprenderà appagando la febbrile “curiosità” del regale ascoltatore di storie. Questa cornice salvifica, che contiene tutte le storie da raccontare, oppone il potere incantatore delle storie al potere distruttivo di una condanna misogena.
E se è vero che la narrazione orale è stata, sul piano familiare, prevalentemente una pratica femminile, spesso sono rimaste indistinte le parti inventate e le parti tramandate di arabeschi narrativi che si andavano componendo con il trascorrere delle generazioni.
Una costante della narrazione orale è proprio la sospensione del racconto, l’artificio narrativo che riesce a mantenere la morte fuori dal cerchio della vita...della vita raccontata, naturalmente.
L’intreccio tra narrazione e vita è dotato, nella storia di Shahrazàd, dell’energia necessaria per sconfiggere - meglio si direbbe “ritardare” - la morte propria e quella altrui.
La sospensione della storia - poi dilatata nei romanzi d’appendice - “appartiene all’arte genuina del raccontare” nella consapevolezza del pericolo incombente - la morte di un ascoltatore rapito e attento - soprattutto nella consapevolezza della circostanza che una storia nasce spesso da un’altra storia.
La proliferazione di storie nelle Mille e una notte è assicurata, dunque, non solo dalla particolare cornice in cui esse sono iscritte, ma anche dallo stesso motore dell’intreccio narrativo che non considera conclusa una storia se non sfocia in un’altra. Un continuum per tutti coloro che sentono la necessità di raccontarsi le storie che, anche indirettamente, li riguardano e di riportare, cambiandole, le storie ascoltate. In un infinito narrativo che ha in Shahrazàd la sua figura simbolica.
Perché una figura simbolica femminile, quando una gran parte dei narratori è dell’altro sesso? Forse perché nutrici e streghe, nonne e mamme, fate e spose ci hanno melodicamente raccontato le storie di quell’infinito narrativo, anche attraverso i loro silenzi e hanno saputo infondere la vita nei loro racconti.
C’è, dunque, una matrice femminile del racconto, che si rende visibile ponendo quasi sempre una donna, forte e determinata come Shahrazàd all’origine del potere incantatorio di ogni storia e dell’accompagnamento operato di storia in storia.
Ecco allora che va dilatato, se non nel significato certo nella funzione, lo strumento della sospensione: “Sharazade evitò il suo destino perché seppe maneggiare l’arma della suspense” scrive Forster a proposito dell’artificio che le stava assicurando la sopravvivenza e, poco dopo, ne completa la funzione “Ogni volta che vedeva sorgere il sole si fermava a metà di una frase, lasciandolo a bocca aperta. “In quel momento Sharazade vide spuntare l’alba e, discreta, tacque”. Questa piccola frase senza interesse è la spina dorsale delle Mille e una notte, la tenia da cui sono legate insieme le pagine di quel libro, e grazie alla quale la vita di una principessa piena di risorse fu risparmiata.”
Alla tipica domanda che l’elemento della suspense offre ad ogni narrazione “Poi che succederà” la risposta di Shahrazàd è: verrà un’altra storia!
Infatti una storia nasce, spesso, da un’altra storia.

2. La seduzione narrativa che Shahrazàd esercita sul sultano - senza trascurare la carica erotica che il termine seduzione comporta - è costituita da molti fattori. L’intento di creare un legame implica, infatti, la creazione di un forte impatto emotivo, reso ancora più evidente da una narrazione capace di aprire gli occhi della mente nell’ascoltatore - lettore.
Ecco dunque che la seduzione avviene anche attraverso la riproduzione di immagini visive, del tutto personali, evocate da quel particolare racconto e scandite, saggiamente, dall’uso della suspense per rendere più stretto il legame di storia in storia. Ma prima di parlare della suspense è necessaria una breve incursione sulle suggestioni visive.
Far vedere non è una necessità assoluta della narrazione, ma è certamente, appunto, una caratteristica di celebrata potenza seduttiva che fa conquistare al lettore-ascoltatore territori di immagini talvolta più ampi e perfino diversi da quelli in cui il narratore avrebbe voluto confinarlo.
Infatti è possibile e anzi auspicabile che s’instauri, quando le due figure sono all’altezza del loro compito, una sorta di coproduzione di senso e di immagini tra chi parla e chi ascolta.
Il sistema di immagini prevale, talvolta, perfino sullo sviluppo della narrazione, sulla trama, e pone il suo baricentro sui personaggi della storia che diventano le immagini letterarie più rilevanti.
Ma c’è, generalmente, una piccola porta che c’introduce in maniera obliqua verso questo sistema ed è rappresentata dallo scenario metaforico. E’, infatti, con la metafora che il narratore riesce nello stesso tempo a creare un particolare impatto emotivo e a proporre una rappresentazione particolare del contesto descritto.
Ma la necessità della metafora non può essere che essere capita se non con l’uso di una metafora: dunque proviamo ad affermare che la metafora è uno specchio!
L’uso per me involontario (o quasi) del verbo essere richiama necessariamente la considerazione di Northrop Frye che nella forma tipica “A è B”, la metafora si colloca tra le figure retoriche come la similitudine, l’iperbole, la sineddoche, l’ossimoro e la metonimia.
“Ma la metafora contiene un’affermazione esplicita, basata sul termine “è”, nonché una implicita che la contraddice. Proprio come il mito dice allo stesso tempo “Questo è avvenuto” e “ questo non può essere avvenuto esattamente così”, anche la metafora, con la copula “è” dice esplicitamente “A è B” (per esempio “Tralcio di vite fruttifera è Giuseppe”) e implicitamente “A ovviamente non è B, e solo uno stupido potrebbe pensare che Giuseppe fosse realmente ecc.”.
Così come il mito è contro-storico, poiché asserisce e nega allo stesso tempo la propria validità storica, la metafora è contro-logica. Che senso può avere, allora, una figura retorica che comprende quanto meno l’opposto di qualunque cosa il lettore o l’ascoltatore considerino come vero?”
La risposta è, appunto, quello di essere uno specchio, nel senso letterale e letterario.
Letteralmente la metafora estetica e visiva - in misura minore la metafora linguistica - tende a dare una nuova riproduzione (si direbbe una nuova identificazione) dell’oggetto, dell’evento, della scena, come in uno specchio. Già, proprio come in uno specchio perché, in primo luogo, qualunque immagine uno specchio riproduca - o meglio, restituisca - assomiglia all’originale, alle sembianze dell’originale, se si tratta di una persona, o ai contorni della scena specchiata. In secondo luogo, poi, l’immagine restituita dallo specchio non può, comunque, essere uguale all’originale perché la stessa esigenza o necessità che ha guidato la mano del narratore a specchiare ciò di cui parla in uno scenario metaforico ci introduce alle particolari qualità dello specchio di cui si serve.
Qualità letterarie naturalmente, che hanno proiettato la nostra immaginazione attraverso lo specchio in un altro piano rispetto alla scena precedente. Per rendere più evidente questo salto di dimensione proviamo a considerare come il mondo dello specchio possa, sempre in senso letterario, persino confinare con il mondo dei sogni, rimanendo però distante il linguaggio metaforico da quello onirico.
Un solo autore è riuscito a far coincidere se non a sovrapporre sequenze metaforiche con sequenze oniriche, ed è sempre lì appostato dietro uno specchio: Lewis Carroll.
Se può sembrare eccessivo parlare della metafora come il passaggio a una dimensione diversa da quella reale, ma che, comunque, la rispecchia, pensiamo almeno alla diversa atmosfera che una metafora può evocare nel corso della narrazione. Ciò avviene anche con la sapiente riproposizione delle metafore fisse: come “l’aurora dalle rosee dita” che ricorre bel ventisette volte nel primo libro dell’Iliade.
La metafora è uno specchio, che il narratore fa comparire improvvisamente, luminosamente e nel riflettere l’oggetto, la frase o l’intero contesto ci fornisce una lettura anzi una visione particolare, diversa e ci catapulta nella nuova dimensione che lo scenario metaforico ha aperto.
E la narratrice per esercitare tutto il suo fascino, per essere seducente non può, certo, fare a meno di questo specchio.

3. Generalmente la suspense, che è tipica anche della narrazione cinematografica, è riconoscibile per i seguenti connotati:
• conoscenza: il lettore (o lo spettatore) ha maggiori informazioni degli stessi personaggi coinvolti; ad esempio conosce il pericolo latente che i personaggi ignorano
• tensione: il lettore (o lo spettatore) in base al precedente fattore si dispone in una condizione di tensione emotiva
• durata: la suspense implica di per sé una dilatazione temporale, altrimenti verrebbero meno tutti i suoi effetti
• allentamento: alla maggior durata deve corrispondere un rallentamento dell’azione.

Il primo connotato della conoscenza di alcuni elementi della scena, se non addirittura dell’intreccio, è il fattore che ci porta più direttamente a considerare la peculiarità della condizione del lettore o dell’ascoltatore nella narrazione: quella che lo conduce inevitabilmente all’essere incastrato nel testo o nel racconto orale.
Un suo coinvolgimento forte nella vicenda narrata - molto più forte di quella che può vivere come spettatore - è reso possibile, anzi inevitabile, dalla circostanza che, in quanto lettore, è stato previsto e, poi, inserito nello schema compositivo.
Non lo troviamo mai indicato tra i personaggi - neanche tra i minori - delle storie solo perché la sua presenza è una costante di tutte le storie: conosciamo il nome dell’autore o degli autori (non sempre, come nel caso de Le mille e una notte), conosciamo il nome di tutti i personaggi, ma sappiamo che accanto a loro c’è un protagonista fantasma, con una presenza discreta, a tal punto che il suo nome non viene mai indicato.
E’ difficile per l’autore capire quale azione svolgerà nella trama quella figura incorporea, come verranno mutati i suoi intenti e, perfino, quale influsso eserciterà sugli altri personaggi, quelli reali.
Per questo nella narrazione popolare le precauzioni dell’autore sono molto più esplicite e il rapporto con quel reale fantasma che è il lettore è quasi codificato.
Penso, per esempio, al romanzo poliziesco per il quale Borges, con perfetto senso del paradosso spinge la valutazione degli effetti di tale inclusione fino ad affermare che esso ha creato un particolare tipo di lettore “C’è un tipo di lettore attuale che è il lettore di romanzi polizieschi. Questo lettore - lo si trova in tutti i paesi del mondo e lo si conta a milioni - è stato generato da Edgar Allan Poe”.
Insieme agli altri personaggi del racconto il lettore-indagatore è inserito nel contesto di un fatto delittuoso, di uno strappo nel tessuto della convivenza civile al quale si oppone un’attività investigativa riparatrice.
In altri termini delitto, indizi, investigazione, scoperta del colpevole sono elementi tutti che partecipano ad una sorte di fable convenue un patto tra scrittore e lettori ed ancor più, tra genere e fans, la cui caratteristica fondamentale, oltre la convenzionalità della trama e la sussistenza di regole del gioco, sta nel ruolo del destinatario della comunicazione letteraria quale elemento attivo della narrazione.
Perché il lettore rispetta un tale patto? Quali ne sono i reali significati?
Una prima risposta è semplice e si ritrova nella condizione ontologica del lettore, che deve tendere ad essere, secondo Novalis “l’autore ampliato” e a fare del libro ciò che vuole.
Questo è particolarmente agevole nel romanzo poliziesco, poiché la sua stessa convenzionalità pone solo il problema della pre-conoscenza delle regole, poiché il rapporto instaurato chiede poco al lettore e gli restituisce molto, lo pone con semplicità sullo stesso piano di chi scrive, gli consente una perfetta fruizione del testo.
Quanto ai reali significati di questa fable convenue che è il romanzo poliziesco - parliamo di significati, al plurale, come è d’obbligo in casi come questi, in cui le intenzioni degli autori si coniugano attivamente con i desideri dei lettori -, c’è da dire che il primo significato è certamente nell’aspirazione a vedere ricomposte regole sociali violate.
E’ l’intelligenza al servizio del vivere civile che riesce a sconfiggere la barbarie della compromissione nei delitti: nel delitto, l’omicidio, che tutti li ricomprende.
Non sempre nella realtà il gioco riesce, come ormai ci ammoniscono i gialli più moderni. Poi c’è la scoperta del colpevole, dell’origine del male, ed anche questa circostanza non è vissuta frequentemente e dà una gioia non meramente intellettuale.
“Come sempre lo scrittore è rimandato al problema della morale o dell’assenza di morale - si autoanalizza la Highsmith - in questo mondo di gente feroce e di sicari, non diversi nel ventesimo secolo da quelli dei secoli prima di Cristo, a chi importa se qualcuno uccide o viene ucciso? Al lettore, se i personaggi della storia sono convincenti”.
In questa prospettiva, il giallo ha la funzione di mimare un concetto etico, la giustizia, e di offrire nel contesto di una narrazione eccessiva un’idea di rivincita e di ripagamento.
Con questo tipo di narrazione popolare il problema della morte, o almeno della morte violenta, viene rinchiuso nella gabbia di un gioco tra autore e lettore, in un contesto spesso improbabile ed eccessivo, e così facendo viene allontanato da noi, o esorcizzato e ricondotto a termini di razionale, quanto illusoria comprensibilità.
Ma è questa una caratteristica tipica del racconto poliziesco? O non è piuttosto un tratto comune di quell’infinito narrativo che avvolge le nostre vite di lettori-spettatori-ascoltatori?

4. Shahrazàd, come figura simbolica della necessità del narrare, racconta per allontanare la morte, o almeno la morte violenta, e nello stesso principio dell’affabulazione iscrive, per sempre, quella volontà di salvaguardia del genere.
“Così sappiamo tutto sulle storie delle Mille e una notte, e su quelle che, da allora, migliaia di donne e di uomini continuano a dire e a scrivere nei caffè arabi e nella case d’Europa. Narrare è – all’origine – un dono femminile, una parola che una donna rivolge a un’altra donna, e che l’uomo ascolta. Shahrazàd comincia le sue storie quando l’oscurità annuncia, da lontano, il giorno: legato all’eros, ai demoni, ai fantasmi e alle lingue segrete, il racconto nasce dalla notte, vive della notte, ma vince le tenebre e fa nascere ogni volta il giorno per tutti noi che parliamo e ascoltiamo.”

Nella contaminazione tra realtà e fantasia l’autonarrazione dei bambini e l’ascolto delle favole permettono di elaborare, già nell’età infantile, le impressioni più drammatiche della realtà, come quelle che derivano, appunto, da morti violente.
Quando l’angoscia è trasferita nella dimensione favolistica - il lupo che mangia la mite nonnina di Cappuccetto rosso e poi viene squartato o la cupa nonnina della casetta di marzapane che offre i dolci ad Hansel e Gretel perché il suo pasto sia più appetitoso - il racconto stesso della morte violenta viene rinchiuso nelle regole di un gioco tra narratore e ascoltatore. Il lupo che era sfuggito viene rinchiuso nella gabbia e la cupa nonnina cannibale finisce nel forno! Fino alla prossima evasione, naturalmente...
E quando l’angoscia per l’iniziazione ad una fase successiva dello sviluppo psico-fisico è la linfa che alimenta favole come quella di Pollicino, allora il racconto del rito prende il posto che spettava allo stesso rito di iniziazione.
In questo tipo di racconto è possibile l’identificazione con l’eroe che porta con se le stigmate della sventura, ma anche del coraggio e della scaltrezza, come Pollicino, appunto. Ed ancora di più è possibile l’espansione dell’immaginazione di chi ascolta la favola: in essa il bambino contempla infatti, le possibili strutture della propria immaginazione, e dalla contemplazione all’esplorazione il passo è breve.
La favola, infine, mantiene la lucentezza della narrazione orale, non solo per il dovere parentale che ancora oggi deve ubbidire alle esigenze di una comunicazione primitiva, ma anche perché nessuna narrazione letteraria è stata così maggiormente preceduta dall’infinito narrativo del racconto popolare orale.
Una storia nasce, spesso, da un’altra storia, abbiamo detto, ed è la trama, l’intreccio narrativo, nelle sue componenti basilari, a disporsi in modo da far proliferare le storie raccontate senza mai fermarsi, in una sorta di germinazione interminabile, che è il segno più autentico della vitalità e, allo stesso tempo, della mortalità delle storie stesse.
“La narrativa è una delle grandi categorie o sistemi di comprensione a cui ricorriamo nei nostri negoziati con il reale - dice Peter Brooks nella sua Prefazione a Trame - e in particolare con i problemi della temporalità: i condizionamenti che l’uomo subisce da parte del tempo, la sua coscienza di esistere solo entro i limiti precisi fissati dalla morte. E le trame sono le principali forze ordinatrici di quei significati che cerchiamo, attraverso una vera e propria battaglia, di strappare al tempo”.
E, come Shahrazàd, attraverso la forza e la necessità della narrazione opponiamo alla morte il gioco della trama infinita che intreccia le nostre storie vere e le nostre storie inventate, senza permettere che il realismo delle nostre azioni prevalga sui canoni arcaici del fantastico.
Esiste, quindi, una pratica narrativa che opera quotidianamente nelle relazioni tra gli uomini e che ha alimentato questo straordinario e immenso patrimonio: “L’esperienza che passa di bocca in bocca è la fonte a cui hanno attinto tutti i narratori. E fra quelli che hanno messo per iscritto le loro storie, i più grandi sono proprio quelli la cui scrittura si distingue meno dalla voce degli infiniti narratori anonimi.”
Un fiume che viene ingrossato da una molteplicità di affluenti, ognuno dei quali può ben riferirsi a una situazione tipica: la scuola, il gruppo, la piazza, la casa, il tribunale, l'ospedale e i tanti altri luoghi illuminati dai media.
Una corrente viva che percorre un paese e che può, a tratti, far parte della sua vita intellettuale alimentando alcuni connotati di una società e creando i necessari presupposti per riconoscere i caratteri della propria identità.

5. Anche se nel 1856 Wilbelm Grimm scriveva “Ci sono situazioni così semplici e naturali, da apparire ovunque, così come ci sono pensieri che sembrano presentarsi spontaneamente. E’ quindi più che possibile che storie identiche o molto simili tra loro si siano formate nei paesi più diversi, in modo del tutto indipendente l’una dall’altra. Queste storie possono venir confrontate con quelle parole isolate che si producono in forma parzialmente o totalmente identica in linguaggi che non hanno connessione reciproca, per sola imitazione dei suoni naturali […] e così noi troviamo anche nelle leggende e nelle storie (che sono la rugiada cui si abbevera la poesia) analogie impressionanti e tuttavia indipendenti. […] Gli elementi mitici non sono mai l’iridescenza di una vuota fantasticheria: più risaliamo al passato, e più li vediamo espandersi, e veramente sembrano essere stati i soli temi delle storie più antiche…”
Da qui l’assunto che “le situazioni talmente semplici da poter riapparire dovunque” determina una condizione in cui le idee, le immagini, le metafore e i personaggi delle fiabe sono protagonisti di una sorta di nomadismo perpetuo che testimonia da un lato la continuità del desiderio di fantasia e, dall’altro, la vitalità di alcune tradizioni popolari.
E dall’idea di popolo, quale fedele custode delle tradizioni, e come tale degno autore del Kinder und Hausmärchen (letteralmente, Fiabe per bambini e famiglie) i fratelli Grimm fecero germinare la loro opera. Vero è che intervistarono non solo i contadini ma anche i loro amici e familiari e negli anni cambiarono idea sulla esattezza scientifica nella riproduzione della narrazione orale. Dapprima la loro fedeltà al dettato popolare era tale che le narrazioni venivano riprese parola per parola. In seguito invece tentarono sempre più un’opera di ricostruzione delle versioni probabilmente originarie scelte tra le varianti di uno stesso racconto. E degli insegnamenti dei Grimm trasse spunto Italo Calvino quando Einaudi gli affidò alla fine degli anni 70, l’impresa della raccolta delle Fiabe Italiane; il tempo trascorso e gli studi sulla fiaba avevano ormai evidenziato come molti motivi narrativi, così autenticamente tedeschi, erano in realtà opera di quel nomadismo che aveva traversato non soltanto diversi angoli d’Europa, ma anche il mondo islamico e l’India.
“Ciò che nella storia umana è narrazione e immagine – dalle cosmogonie degli Indios del Brasile, alla mitologia greco-romana, a Cappuccetto Rosso – appare oggi - scrive Calvino - come manifestazione d’un processo mentale unico, che da un secolo all’altro e da un continente all’altro ripete gli stessi schemi. Alcune scuole interpretative individuarono nei motivi delle fiabe le fasi dei riti di iniziazione; altre riconobbero in essi i simboli dei sogni; o ancora essi vennero ridotti a formule schematiche come operazioni logico-matematiche. Il dibattito tra le varie scuole continua, e le fiabe, in tutta la loro elementare semplicità rimangono una delle più misteriose espressioni della cultura umana. E sempre si continua a far riferimento alla raccolta dei Grimm, capostipite di tutte queste ricerche.”
Fiabe e storie per secoli solo raccontate, in un flusso inventivo che sembra non dover avere mai fine.

6. Quanta parte in tutto questo è dovuto all’ascoltatore! A colui, cioè che sa captare ritmi e pause, che sa ascoltare il non detto e che sa ricombinare il racconto secondo le proprie necessità.
Nella necessità del narrare sarebbe un grave errore non considerare l’ascoltatore come una figura primaria, al pari di Shahrazàd, che, senza di lui, rimarrebbe muta e priva di vita come una statua di gesso.
Nei Peanuts di Charles M. Schulz ci imbattiamo spesso in straordinarie figure di ascoltatori (salvo esserli ripetutamente noi stessi lettori).
Se tutti i bambini, le bambine, gli uccelletti e Snoopy, hanno da raccontare qualcosa di ordinario o straordinario interesse è anche vero che gli stessi personaggi hanno il dono del saper ascoltare il racconto per attribuirgli, magari, un senso diverso da quello impresso dal narratore.
Per tutti valga una striscia perfetta, in cui Linus insiste con Lucy perché gli legga una storia. Per zittirlo, la dispotica narratrice afferra un libro, lo apre a caso e recita “Un uomo nasce, vive e muore. Fine”
Getta il libro da parte e Linus interessato lo raccoglie “Che racconto affascinante – esclama - ti fa quasi venir voglia di aver conosciuto quel tale.”
Con l’ascoltatore perfetto il narratore può risparmiare in suspense e trama per rendere attraente il suo racconto!

Ancora sull’ascolto. Se è vero che uno stesso anello congiunge le due speculari necessità del narrare e dell’ascoltare, allora può accadere che le due figure del narratore e dell’ascoltatore, nella stessa persona, nello stesso scrittore, si alternino e persino si sovrappongano.
“I grandi scrittori sanno vedere nitidamente, i massimi sanno vedere anche con l’udito, - nota Roberto Mussapi a proposito di Stevenson - vedere attraverso i muri, vedere nel buio: vedere il vero, non delirare. Udire il visibile. Stevenson vede attraverso le pareti, sa ascoltare, e questo è il dono massimo per uno scrittore omerico, capace di un ascolto così devoto da celare la propria voce individuale e la propria persona. E vedendolo immobile, in ascolto, teso a sviluppare le azioni rivelate dai suoni, il pensiero corre a un ragazzo che sapeva ascoltare, il giovane Jim, che, nell’Isola del Tesoro, nascosto nel barile dove si era intrufolato per rubare una mela, nel buio, acquattato e immobile, sente all’esterno le parole di Silver e dei marinai che ordiscono l’ammutinamento. Se Jim e i suoi amici potranno giocare d’anticipo e vincere la congiura, e trovare il tesoro, sarà per merito del ragazzo che ha saputo ascoltare. Non sottovalutiamo quindi l’udito dello scrittore: ne farà buon uso.”

Soltanto con quest’attitudine, con questa capacità d’ascolto è possibile percepire la vastità e l’attinenza con le nostre vite e con le nostre morti dell’infinito narrativo, un luogo, uno spazio, un oceano, un’isola, un tesoro, dove si dipanano e si confrontano miti, leggende e storie di tutti i tempi.; dove è possibile rintracciare affinità mitologiche impensabili e ricreare le storie dalle storie.
Con questa consapevolezza Stevenson chiama i suoi racconti giovanili, pubblicati dal giugno all’ottobre del 1878 sulla rivista settimanale “London”, diretta da un suo amico, New Arabian Nights (Le nuove Mille e una notte).
Su questi arditi intrecci di eventi avventurosi e fatali l’autore de L’Isola del Tesoro , ormai approdato nelle isole dei mari del Sud, legge al re hawaiano Kalakava e alla sua corte “una sua fosca ballata ispirata a leggende scozzesi di faide, presagi, visite di morti assassinati, profezie ferali, misteriose relazione tra i vivi e i defunti: la ballata evocava un mondo estremamente vicino a quello dell’arcipelago, anche se i sui protagonisti si chiamavano Stewart e Camerun, e Stevenson apparve come il cantore di leggende universali, divenne Tusitala, colui che racconta, il narratore.
Non era certa inconsueta, in quelle isole, la presenza di artisti, letterati, scrittori:Tusitala non derivava quindi dalla professione di Stevenson, ma dalla sua natura profonda di affabulatore, di narratore orale, di magico parlatore capace di incantare con i suoi racconti.
Tusitala era il riconoscimento, in quell’uomo bianco e strambo, gentile e sorridente, della profonda, fatale, quasi soprannaturale facoltà fascinatoria del narratore di miti, di quell’ascolto profondo, di quella superiore immersione nei meandri della lingua e dell’anima che segna lo scrittore supremo come una figura esemplare e a suo modo eroica.”

7. Dunque, il narratore, l’affabulatore tira su i secchi d’acqua dal pozzo della propria esperienza e da quella altrui per dissetare quelli che lo ascoltano e che potranno trasformare in esperienza quelle stesse storie in un naturale processo di assimilazione.
Ancora, nel gioco della trama e dei personaggi, la partecipazione emotiva del lettore e dello spettatore è resa più immediata attraverso la sua somiglianza con il personaggio principale. Si realizza così una sorta di identificazione con l’eroe in possesso di una qualità che noi vorremmo avere o con l’uomo che è davvero simile a noi ( almeno nel contesto in cui è collocato) e ciò che gli accade nella trama potrebbe succederci anche domani.
Le spy story giocano spesso su questo doppio registro del superuomo e dell’uomo comune, con una sempre più crescente attenzione a quest’ultimo personaggio attirato, dalla trama, in una pericolosa situazione da cui deve sfuggire (come nei due classici del cinema hitchcockiano: L’uomo che sapeva troppo, 1956 e Intrigo internazionale, 1959).
Il tema del fuggitivo e del viaggio che si affaccia con insistenza in libri e film del genere ci porta inevitabilmente a John Buchan e ai suoi Thirty-nine Steps. Perché in questo romanzo, certamente non memorabile, ma che alcuni considerano capostipite del genere, il viaggio del protagonista, ancora un ordinaryman, costituisce un autentico paradigma avventuroso per il lettore del thriller di spionaggio.
A suo tempo Graham Greene, riflettendo sull’importanza dei Thirty-nine Steps, che uscì nel 1915, scrisse “Più di un quarto di secolo è passato da quando Richard Hannay scoprì un morto nel suo appartamento e cominciò quindi quella fuga e inseguimento per lo Yorkshire e le brughiere scozzesi, giù per le strade di Mayfair, dentro e fuori gli uffici amministrativi e le case di campagna, verso il freddo pontile dell’Essex dai trentanove scalini, che da allora sarebbero diventati un modello per gli scrittori di storie di avventura. John Buchan fu il primo a comprendere l’enorme valore drammatico dell’avventura in un ambiente familiare, che accade ad uomini non avventurosi.”
Uomini come noi, non avventurosi, in grado però di deviare l’azione di implacabili nemici del genere umano. In questo senso un certo tipo di racconto di spionaggio è stato rassicurante o mistificante e lo è ancora.
L’icona di questa condizione è rappresentata dall’immagine della traduzione cinematografica che Hitchcock ha girato dei “39 scalini” di Buchan, con il protagonista Richard Hannay sul quadrante del Big Ben, appeso alla lancetta dei minuti, mentre la sua vita è minacciata dai killer della Pietra Nera, l’organizzazione che vuole portare l’Europa alla rovina, fomentando guerre e rivoluzioni. Quell’uomo appeso all’orologio non è solo l’immagine dell’eroe in bilico tra la vita e la morte, ma anche il simbolo del protagonista che, nella spy story, si deve misurare con il tempo della Storia.
E’ un’icona che ha raffigurato definitivamente la caparbia e l’improbabile fiducia dei lettori nella possibilità che uno sforzo di volontà e un pizzico di avventura possano consentire a tutti di sventare i complotti che rischiano di deviare il rassicurante corso delle magnifiche sorti e progressive del genere umano.
Perché mai come in questi decenni la vita comune si svolge nel mondo del thriller. Come cittadini e come lettori siamo partecipi di una stessa condizione, siamo alle prese con una realtà che, appena scortecciata dalla sua patina di normalità, nasconde intrighi e trame che ci possono cambiare la vita, che anzi possono distruggerla mentre viaggiamo lungo il suo corso.

Di nuovo il pericolo, la sospensione, la morte. Di nuovo la necessità di sfuggire e di confrontarsi con un’altra storia “La morte è la sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare. Dalla morte egli attinge la sua autorità o in altre parole, è la storia naturale in cui si situano le sue storie”.
Di questa particolare dimensione il narratore sembra non avvertire il disagio o lo scandalo, perché è attento a inserire la trama della sua storia in quell’esperienza collettiva della narrazione di cui la sua vita fa parte, almeno fino alla prossima storia.
“(Una vita, del resto, che comprende in sé non solo la propria esperienza, ma non poco di quella degli altri. Nel narratore anche ciò che ha appreso per sentito dire si assimila a ciò che è più suo.) Il suo talento è la sua vita; la sua dignità quella di saperla narrare fino in fondo. Il narratore è l’uomo che potrebbe lasciar consumare fino in fondo il lucignolo della propria vita alla fiamma misurata del suo racconto. Di qui deriva l’incomparabile atmosfera che – in Leskov come in Hauff, in Poe come in Stevenson – circonda il narratore. Il narratore è la figura in cui il giusto incontra se stesso.”

E quest’incontro è preparato da una lunga storia (poteva essere diversamente?) che affonda le sue radici nelle singole vicende personali e negli eventi collettivi.
Si dice che nell’uomo ci sia una predisposizione naturale al racconto, antropologicamente dimostrata dalla nascita dei miti, e nell’infanzia dell’uomo questo stato di natura si è tradotto in una particolare propensione all’ascolto delle fiabe.
La ripetitività e la monotonia di una voce o, al contrario, la lucentezza di una recitazione che interpreti più personaggi sono tra gli strumenti privilegiati per sistematizzare la conoscenza di sé e del mondo circostante.
Un’operazione complessa e destinata a dispiegarsi sul lungo periodo, ma che certo muove i primi passi in quella fase iniziale, proprio per la forza primigenia del racconto di fiabe.
Credo che la prima scoperta di un narratore in erba – dopotutto è nei primi anni di vita che si scopre il tipo di talento che ciascuno possiede – sia quella dell’invenzione di uno spirito compagno.
Una sorta di ologramma che frequenta maggiormente nelle ore serali e in quelle notturne, i luoghi dove ci sono i letti più corti del normale e che ha i connotati dei personaggi delle favole che in quei luoghi sono state raccontate.
Ma se ne discosta anche! Già, perché è il nostro spirito compagno, e quindi non può essere uguale a Tompusse e neanche a Peter Pan.
Attraverso lo spirito compagno, infatti, l’immaginazione infantile esprime una sua vitale necessità, elabora un gioco, un intreccio semplice di situazioni ed individua una direzione verso cui orientare le successive invenzioni.
Il pericolo e la paura, l’allegria e il gioco, l’altro da sé e, addirittura, la suspense si muovono in quegli intrecci semplici come figurine da colorare: intrecci semplici che compongono, nella diversità dei talenti, situazioni e condizioni assolutamente generative. Più in là nella vita, molto più in là, il narratore scoprirà che un tale esercizio – quello del leggere, del raccontare, dello scrivere – crea una sorta di affinità parentali con persone reali e con personaggi inventati, che riguarda non solo la sua vita, ma anche quella degli altri: un filo continuo che dall’infanzia si snoda e s’intreccia intorno a molte altre esistenze.
E’ l’invenzione di Shahrazàd del racconto senza fine!

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