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Una Studebaker azzurra
Recensione di Dino Bernardini
da “SLAVIA”, Rivista trimestrale di cultura n°3/2007
Giuseppe Fiori è indubbiamente un personaggio fuori del comune. In quarta di copertina di questo libro troviamo una presentazione dell'autore che immaginiamo uscita dalla sua stessa penna: "narratore e burocrate, ha pubblicato libri per ragazzi e saggi su tematiche ammini­strative della scuola ed educative. E' anche coautore di numerose storie poliziesche, ma non oltre". Si tratta di una presentazione quanto meno riduttiva, giacché tra le sue "storie poliziesche, ma non oltre" ricordiamo un ottimo romanzo, L'uomo di vetro, che di poliziesco ha soltanto la trama. Ricordiamo anche che un suo libro è stato persino tradotto in Russia. Ma veniamo alla Studebaker azzurra, pubblicata per farne dono agli amici, "ai pochi cui è rivolto questo piccolo album narrativo" (p. 68). Cosa che lo rende quasi unico in un mondo di berluscones e di veline.

Il libro è fondamentalmente autobiografico, ma non solo. La narra­zione procede non proprio in ordine cronologico, con fughe in avanti e ritorni agli anni precedenti, ma nel complesso ne viene fuori una storia personale mai separata dalla storia della società italiana coeva dell'autore. La Studebaker del titolo è la grossa automobile americana di suo padre avvocato. Un giorno, mentre il padre guidava immerso nei suoi pensieri, l'auto venne superata da un ciclista, un "cascherino", uno di quei ragazzi che ancora nel dopoguerra, con una bicicletta e un cesto montato davanti al manubrio o dietro la sella, facevano a Roma il servizio a domicilio per i clienti dei negozi. Le cadute, le "cascate", dovevano essere frequenti, di qui il nome di "cascherini" (almeno questa è la versione che mi dette una persona che a suo tempo, a nove anni di età, aveva fatto appunto il cascherino). "Papà, ci sta superando pure 'na bicicletta!", dice il piccolo Giuseppe al padre distratto. «Mio padre guardò alla sua sinistra, rallentò leggermente e si voltò verso di me. "E' Natale, facciamogli un regalo, domani lo racconta a tutti che sulla discesa verso Piazza Istria ha superato una Studebaker!"» (p. 43).

L'autore fa rivivere davanti ai nostri occhi un mondo ormai scom­parso, dove gli adulti seduti sulle panchine parlavano del quotidiano, "mentre noi ragazzini giocavamo intensamente a palline o leggevamo giornaletti, indimenticabili giornaletti... imparammo solo più tardi che si chiamavano fumetti" (p. 11).

Un salto indietro nel tempo, e scopriamo che nel quartiere Trieste di Roma, durante la guerra, quando a ogni segnale di allarme tutti corre­vano nei rifugi antiaerei per paura dei bombardamenti, Loro, la "nomen­clatura" fascista, disponevano di un rifugio speciale, segreto e riservato. La gente comune si accalcava all'ingresso di via Chiana, mentre "l'ingresso di via Lambro era sapientemente occultato per dare modo agli abitanti di un unico palazzo di entrarvi di nascosto e alla spicciolata" (p. 12). Poi viene il dopoguerra con le prime elezioni libere e relative campa­gne elettorali. Un manifesto della DC nel 1948 diceva: "Nel segreto della cabina, Dio ti vede, Stalin no" (p. 70). Tra i tanti ricordi che scorrono veloci nelle pagine del libro c'è anche una scritta che un medico aveva fatto apporre all'ingresso del manicomio: "Questi soltanto i pochi, forse nemmeno i veri" (p. 33). Ma ciò che più a lungo e più volte viene fatto riemergere dal passato è la vita quotidiana all'interno della grande casa familiare di via Lambro, sempre piena di ospiti, dove chiunque, parente, frequentatore abituale o casuale, era sempre ben accolto: "un porto dove attraccare, la sera o nei giorni di festa o in un momento qualsiasi e comunque senza regole d'attracco" (p. 38).

Frequenti sono nel libro le citazioni, come questa da Iosif Brodskij: "Fallimento per fallimento, cercare di rievocare il passato è come tentare di afferrare il significato dell'esistenza. In entrambi i casi ci si sente come un bambino che voglia stringere un pallone da basket: le mani continuano a scivolare via". O quest'altra da Walter Benjamin: "Il narratore è l'uomo che potrebbe lasciar consumare fino in fondo il lucignolo della propria vita alla fiamma misurata del suo racconto". Via via che ci si avvicina alla conclusione del libro ci pare che affiori nell'autore un senso di tristezza, forse dovuto alla scomparsa di alcuni degli amici più cari, quasi un pre­sentimento di commiato, con l'immagine della Studebaker azzurra che scompare: "Un fumo azzurrino esce dal tubo di scappamento di quel vec­chio macchinone americano. Si sta lentamente allontanando da me..." (p.l14). Ma vogliamo concludere questa nostra lettura del libro con qual­cosa di più leggero, come 1'"eredità" che il bisnonno svizzero ha lasciato a Giuseppe Fiori, e cioè la ricetta per sconfiggere subito il raffreddore: "C'è bisogno di un bicchiere, una bottiglia di cognac e un cappello. Ti devi stendere sul letto e mettere il cappello vicino ai piedi, quando vedi due cappelli è finito il raffreddore" (p. 83).

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