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Uomo di vetro, uomo di piombo
Premessa (inedita) di Giuseppe Petronio
Nell'85, quindici anni fa (ma quindici anni, con il ritmo con cui oggi va il tempo sono tanti) Luigi Calcerano e Giuseppe Fiori, funzionari entrambi al Ministero della Pubblica Istruzione, pubblicarono L'uomo di vetro, un romanzo poliziesco, o, come si dice da noi, "giallo" (Roma, Cooperativa Editrice Il Ventaglio). Due anni dopo, nell'87, pubblicarono, con lo stesso editore, un secondo romanzo, L'innocenza del serpente, anch'esso un giallo, ambientato non piu, come il primo, a Rieti ma a Roma, però con gli stessi protagonisti, o almeno, con alcuni di essi.
Il primo lo avevo letto, e mi era piaciuto; il secondo me lo fecero avere in bozze, chiedendomi, con parole gentili, una Presentazione. Gliela feci volentieri, e cercai di individuare i tratti caratterizzanti dei loro lavori; i loro, dicevo, erano dei "gialli anni Ottanta", e volevo dire che si inserivano con garbo e discrezione nell'evoluzione che già da qualche decennio era propria del poliziesco, allontanandolo sempre più dallo schema e dalla struttura originaria, per farne, sempre più, un "genere nuovo", quello che oggi diciamo Mystery: un genere, o sottogenere, nel quale sfociano e confondono le acque tanti generi o sottogeneri che prima avevano ognuno un suo nome e caratteri suoi: il poliziesco, il nero, il racconto di spionaggio, eccetera eccetera; un insieme pronto ad ospitare racconti di ogni genere, purché abbiano in comune un mistero intrigante, e il tentativo (con gli anni sempre piu vano) di risolverlo.
I due romanzi di Calcerano e Fiori rientravano, più o meno, cioè con garbo e discrezione, in questo modo d'intendere il "giallo", e i due autori parevano essersi impadroniti delle tecniche necessarie, inventandosi storie e personaggi e una lingua e uno stile "moderni", e scrivendo, concludevo, libri di consumo per un pubblico che "se non si serve nelle boutique non va al supermercato".

Quei due romanzi avevano in comune, l'ho già detto, alcuni personaggi: potevano dunque parere l'inizio di una produzione seriale, uno dei caratteri più tipici del "giallo classico". Chi pensava così, e l'ho pensato anche io, si sbagliava: non conosceva Calcerano e Fiori, e la loro insaziabile irrequietezza. Da allora in poi Calcerano e Fiori, oltre a far carriera nei loro uffici ministeriali, hanno fatto, con il poliziesco e intorno al poliziesco, un po' di tutto. Hanno pubblicato saggi critici: un volume su Agatha Christie; hanno composto per le scuole una bella antologia del racconto poliziesco (Uno studio in giallo, La Nuova Italia, 1989). Si sono, sempre per la scuola, inoltrati in un territorio nuovo, e composto un'altra antologia, molto bella, sul racconto di spionaggio (Una storia di spie, La Nuova Italia, 1997). Hanno continuato a scrivere in proprio: A scuola di giallo, un poliziesco ambientato in una scuola, e destinato dunque a diffondere la conoscenza e il gusto del giallo nella scuola (SEI, 1988): Una nuova avventura di Sherlock Holmes, una indagine nientemeno di Sherlock Holmes, e ambientata a Roma (Archimede Editrice, l994); Filippo e Marlowe indagano, resuscitano questa volta un altro mostro sacro, l'eroe di Raymond Chandler. A parte c'è Gratta e fiuta, una delizioso racconto, dove da detective funge un... gatto, scritto ancora da Luigi Calcerano, ma, questa volta, senza Fiori: con il giovane figlio Filippo.

Attraverso questa varia produzione Calcerano e Fiori si sono andati allontanando sempre più dalle loro origini, e, come il gatto di quel romanzo di Calcerano padre e figlio, sono andati fiutando e grattando in tutta la produzione d'oggi. Qualcuno direbbe che sono passati dalla Modernità al Postmoderno; io, che questo termine lo rifiuto (almeno per le implicazioni e le conseguenze di cui lo caricano), dico che sono passati da una invenzione e da una scrittura "anni Ottanta", che stava ancora con il tacco del piede sinistro nell'invenzione e nella scrittura del giallo "classico", all'invenzione e alla scrittura propria della letteratura, dico io, "tipo Porta Portese", diventando così, da moderni che erano, non postmoderni, ma modernissimi, dernier cri. Che vuol dire?
Filippo e Marlowe è apparso con una presentazione (Giallo e nero) di Vincenzo Cerami: quattro paginette che sono un vero e proprio saggio critico, assai intelligente. Ne cito alcuni passi, perché non saprei dire meglio, e perchè colgono caratteri che sono, oggi, non di Calcerano e Fiori soli, ma di quasi tutta la narrativa, di tutta quella, almeno, che ha accettato questa poetica.
"Il delitto - scrive Cerami - ... è la griglia di un racconto che divaga soprattutto su immagini la cui crudezza è nell'assenza di dramma". O ancora. un racconto giocattolo d'ambientazione realistica, dove il divertimento... è nell'assurdità, nell'incongruità delle azioni umane, tutte scervellate". E Cerami continua indicando le fonti dei materiali di cui gli autori si servono, il trattamento linguistico a cui sottopongono le loro invenzioni eccetera eccetera.
Le osservazioni di Cerami valgono per quest'opera di Calcerano e Fiori, non per altre, che sono costruite con altri materiali e su altri registri inventivi e linguistici. Quello, però, che è presente in tutte le opere, e che, direi, pare oggi la cifra di tutta la loro produzione, è il concetto di "opera giocattolo", cioè dello scrivere come "gioco". Come in tutte le età in cui muoiono le ideologie (non è vero: non muoiono, ma tanta gente pensa così), come in tutte le età in cui vivere diventa particolarmente difficile, la tentazione dell'arte-gioco, divertimento, si fa prepotente, e acquista continuamente adepti nuovi. E il passaggio del "giallo classico", gioco anch'esso ma gioco tutto intellettuale e scientista, al mystery d'oggi, al romanzo-combinatorio o romanzo-contenitore, in cui raccogliere tutti i cascami e i rifiuti di tutte le età, questa parabola, dico, è terribilmente seria e istruttiva.

Questa parabola Calcerano e Fiori l'hanno percorsa, anzi la stanno percorrendo tutta, e questo volume ne è il documento. Si comincia con due gialli: due romanzi dove indagare ha ancora un senso. Si passa poi a un racconto di spionaggio, e lo spionaggio è assai più' ambiguo del poliziesco: è un vero e proprio gioco di specchi, un mondo dove l'ambiguità, la mancanza di una identità certa, l'essere e il parere, sono la legge costitutiva. E Calcerano e Fiori conoscono il loro mestiere: che, come lo intendono oggi, non è quello di inventare una storia nuova, coerente, umana, da prendere sul serio. E', seguendo una guida sicura, cioè certo romanzo di spionaggio inglese, quello di inventare una storia, e raccontarla, ma intanto giocare con essa e con il proprio racconto, e ammiccare continuamente al lettore, moltiplicando perciò i colpi di scena, come un prestigiatore che porta all'estremo i suoi trucchi, perchè si capisca che sono trucchi. E perciò, civetteria estrema, ai personaggi nuovi mescolano ancora il loro detective dei primi romanzi: invecchiato, cresciuto di grado e d'esperienza, non sempre a suo agio, lui poliziotto, fra tanti militari spioni, ma segno pure di una continuità ideale fra la vecchia maniera e la nuova.
E a chiudere il volume un altro racconto di spionaggio, ma ancora più' avanti sulla strada della dissoluzione o decostruzione, della logica, della congruenza e via dicendo, e ancora personaggi nuovi e alcuni vecchi, e lui, l'eterno commissario, a dire, che cosa? Forse a sottolineare con la sua presenza che il mondo è davvero cambiato, e lui è come un fossile marino incapsulato in una roccia montana: il ricordo di un mondo che fu.
Forse, invece, a dire che tutto pare cambiato, ma nelle apparenze, e la sostanza, il nocciolo duro non cambia. Forse... ma come la logica del giallo "classico", quello degli anni del positivismo e dello scientismo, era la rassicurante riconferma dell'esistenza di una verità, così la logica di questo giallo o mystery d'oggi, negli anni del "pensiero debole", della morte delle ideologie, della Ragione e della Storia, è la riconferma della impossibilità di ogni certezza, perché davvero, come cantava Falstaff, tutto nel mondo è beffa.

Posso confessare agli amici di Calcerano e Fiori che io non ci credo, e soprattutto, non mi ci diverto? Loro lo sanno, ne abbiamo chiacchierato tante volte, ma io, come dicevano nel '68 i giovani, sono un matusa. (Il che non toglie che i loro libri io li legga, con interesse e piacere).

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